
9 Agosto 2025
Budapest: prima del Pride, la mostra anticlericale
A Budapest, una mostra anticlericale allestita dai Verdi ha scatenato forti polemiche. Le autorità religiose e politiche, pur condannando l’iniziativa, hanno preferito non amplificare una vicenda frutto solo di opportunismo politico.
Prima ancora del Pride di giugno, la scena sociopolitica ungherese è stata teatro di una controversia innescata da una mostra anticlericale allestita dalla formazione politica Dialogo – Partito dei Verdi (Párbeszéd – A Zöldek Pártja). I contenuti dei manifesti – rappresentazioni di sacerdoti con banconote e in situazioni compromettenti, allusioni alla pedofilia, il premier Orbán vestito da prete – non nascono da una riflessione critica sul ruolo delle istituzioni ecclesiastiche nella società ungherese e del rapporto Chiesa-Stato, ma si configurano piuttosto come una riproduzione di stereotipi anticlericali di sovietica memoria.
La tempistica dell’iniziativa – lanciata dapprima a Debrecen, ma spostata a Budapest dopo la morte di papa Francesco – oltre a un calcolo cinico rivela una comprensione acuta dei meccanismi mediatici: la provocazione è diventata strumento di posizionamento politico per un partito che, fondato nel 2013, detiene nel parlamento solo 6 seggi su 199 e nei sondaggi naviga attorno all’1%, perciò cerca visibilità in un panorama politico dominato dalla figura carismatica di Viktor Orbán.

I pannelli esposti in piazza Kálmán. (mandiner.hu)
Richárd Barabás, co-presidente del Párbeszéd e figura che incarna la traiettoria di un movimento politico allontanatosi dalle originarie tematiche ambientaliste per abbracciare battaglie identitarie, è riuscito a massimizzare l’impatto visivo e generare quella «economia dell’attenzione» di cui si nutrono i partiti marginali. Il Párbeszéd, nato formalmente per difendere l’ambiente, si è trasformato in un veicolo di importazione di conflitti culturali che poco hanno a che fare con la tutela della natura. La figura dell’ex attore e oggi politico, dichiaratamente omosessuale, incarna perfettamente questa trasformazione: dopo la formazione all’Università del teatro e delle arti cinematografiche e l’esperienza nel collettivo teatrale alternativo HOPPart, si è dedicato alla politica progressista facendo dell’attivismo LGBTQ+ e dell’anticlericalismo i propri cavalli di battaglia.
Barabás ha chiarito che la mostra non intendeva criticare la comunità dei credenti bensì «il sistema istituzionale della Chiesa» – anche se sui pannelli si insinua il coinvolgimento dell’intera comunità cristiana nell’occultamento degli abusi sessuali e in attività lucrative; – ci ha infilato anche qualche citazione di papa Francesco, e ha sostenuto che «il popolo ungherese non è religioso» quando i dati del censimento del 2022 mostrano che circa il 42,5% della popolazione si dichiara cristiana, e per il 29,2% cattolica. Insomma, il solito copione di mezze verità, luoghi comuni e pregiudizi.
Per fare un esempio, la questione dei finanziamenti statali alle Chiese in Ungheria è una vicenda molto complessa che non si può banalizzare in uno slogan da stadio. Sebbene non si tratti di «centinaia di miliardi di fiorini» all’anno come vorrebbe Barabás, le Chiese ricevono cifre importanti (il governo Orbán si pone come difensore della cultura cristiana), e beneficiano di un sistema che consente ai contribuenti di destinare l’1% delle loro imposte alle varie organizzazioni religiose. È un tema che si inserisce nel più ampio problema del rapporto tra istituzioni ecclesiastiche e potere politico, tuttavia il modo in cui le critiche vengono veicolate – attraverso la caricatura e la demonizzazione – svuota di contenuto quello che potrebbe essere un dibattito legittimo e interessante.
La conferenza episcopale ha espresso «dolore e turbamento» di fronte a una campagna «profondamente diffamatoria» che «ricorda i periodi più bui della storia moderna e le dittature che perseguitavano la Chiesa», chiaro riferimento al regime comunista. I vescovi hanno deplorato anche l’uso strumentale che Párbeszéd ha fatto delle festività pasquali e della morte del papa per pubblicizzare la propria iniziativa, e si sono rifiutati di commentare ulteriormente.
La strategia del silenzio adottata dalla gerarchia ecclesiastica va letta come una forma di resistenza passiva che priva l’avversario dell’ossigeno mediatico di cui ha bisogno, e non concede dignità di dibattito a quello che viene percepito come opportunismo politico. È una lezione di maturità che contrasta significativamente con la volontà di trasformare ogni provocazione in occasione di scontro frontale.

«Date a Cesare quel che è di Cesare, a Orbán quel che è di Orbán». (facebook)
Anche i partiti di governo, Fidesz e l’alleato cristiano-democratico KDNP, hanno condannato la mostra, inquadrandola come un attacco politico calcolato e anticristiano. La strategia dei partiti di governo mira a rafforzare la base elettorale conservatrice, isolando il Párbeszéd e riportando il dibattito in termini di «noi» (cristiani, patrioti) contro «loro» (anticristiani, comunisti, immorali). «Qui in Ungheria non si bruciano le chiese, non si uccidono i sacerdoti durante la messa, non si trasformano le chiese in abitazioni e nemmeno le distruggiamo – ha dichiarato Dániel Szécsényi (rappresentante di Fidesz nella capitale). – Tuttavia, le croci in pietra sul ponte Margherita sono state più volte abbattute e anche le statue della Vergine sono state danneggiate. Dopo ogni episodio del genere, credo che la nostra fede non faccia altro che rafforzarsi nel momento in cui si cerca di tacitare il desiderio di Dio nelle persone».
Le prese di posizione pubbliche da parte dei rappresentanti delle istituzioni sono state energiche ma limitate: nonostante la retorica sulla difesa dei valori cristiani tradizionali che caratterizza la comunicazione politica di Orbán, la scelta di non amplificare la polemica rivela una comprensione profonda dei meccanismi dell’attenzione pubblica. Lasciare che la provocazione si esaurisca, senza fornire ulteriore combustibile mediatico, rappresenta una strategia di neutralizzazione che si è rivelata efficace sia in occasione dell’iniziativa di Párbeszéd, sia in parte a giugno quando è culminato il Pride di Budapest, tecnicamente vietato dalle autorità.
Ma al di là delle dinamiche politiche, la vicenda di aprile conferma che un certo laicismo contemporaneo si nutre di una memoria storica selettiva che pesca dai conflitti del passato, senza tuttavia comprendere le trasformazioni profonde che hanno caratterizzato l’evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche. In questo caso la Chiesa cattolica ungherese, che ha attraversato la persecuzione comunista mantenendo viva la propria identità spirituale e culturale, rappresenta un patrimonio di resistenza e di testimonianza che meriterebbe rispetto anche da parte di chi non ne condivide le posizioni ma sbandiera slogan su «verità, umanità e amore».
(Foto d’apertura: Elekes Andor, wikipedia)
Angelo Bonaguro
È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.
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