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7 Maggio 2022
Zachar Prilepin: “Il monastero”
Un ambizioso romanzo sui lager che annega nei dettagli, senza cogliere il senso dell’insieme.
A scrivere un ponderoso romanzo sul lager-simbolo delle Solovki – ex-monastero in un arcipelago del Mare del Nord – è uno degli autori più noti e discussi della Russia di oggi: nato nel 1975, ha militato nel Partito nazionalbolscevico e ha partecipato alle guerre in Cecenia nelle file dei corpi speciali della polizia russa. Non ha mai fatto mistero della sua propensione per il militarismo, il nazionalismo, il machismo; della sua ripulsa per i miti liberali e della sua ammirazione per uno Stato forte.
La rivoluzione del 1917, ai suoi occhi, è «una grande impresa nella storia dell’umanità, realizzata da idealisti, sia pure con mostruosi errori, e forse con mostruosi misfatti, ma che nell’insieme ha avuto un influsso estremamente benefico sulle sorti del mondo».
Ebbene, dopo il Caucaso e la provincia russa, che fanno da sfondo ai precedenti romanzi di Prilepin,
qui al centro dell’opera è il lager delle Solovki, dove la leadership sovietica si fece le ossa per imparare come annientare la persona umana, «rieducandola», laddove riusciva a sopravvivere, ad essere un dettaglio del gigantesco ingranaggio del potere
(una lezione messa poi felicemente a frutto dal regime nazista, per creare i propri campi di detenzione e di sterminio).
Il romanzo ha riscosso un notevole successo in Russia, dove ha ricevuto vari premi e ha fatto parlare del suo autore come dell’erede dei grandi classici degli ultimi secoli. Certamente, come lo stesso Prilepin ha asserito in un’intervista, vi troviamo una scrupolosa ricostruzione storica dei singoli dettagli della vita nel lager: «È stato un lavoro masochistico cui mi sono sottoposto volentieri. Per dare la parola a un esponente dell’intelligencija, ho letto molti diari d’inizio secolo; per il gergo militare, ho consultato libri di memorie di ufficiali e soldati; per cavarmela con le chiacchiere dei cosacchi, mi sono servito a piene mani dei dizionari del loro argot».
Ma l’impressione che se ne ricava è curiosa, o forse sarebbe meglio dire grottesca: come se fossimo davanti a un gigantesco puzzle, diligentemente assemblato ma privo di un senso unitario, in cui i singoli pezzi non perdono mai i propri contorni frammentari – ovvero il sapore di citazioni imparaticce – per assumere vita propria. La narrazione si svolge in un «inferno avvincente», per usare un’espressione di Anna Zafesova, in una recensione al romanzo apparsa su La Stampa, in cui non vi sono più boia e innocenti. Non è un caso – continua la Zafesova – che qui il «vero eroe positivo» sia Ejchmans, di fatto il fondatore del campo, presentato come «un uomo colto di molteplici interessi e passioni, una sorta di “manager efficiente” che trasforma una prigione in un’impresa modello» e si applica a «forgiare l’uomo nuovo da una massa di assassini, traditori e peccatori».
Ne risulta uno svuotamento di significato, una sorta di postmoderno nei contenuti (per quanto Prilepin si proclami a gran voce un continuatore della linea neorealistica). Lui stesso, che pure osserva con un certo autocompiacimento che «in gran parte del testo abbondano discussioni astratte, per esempio sul senso della rivoluzione o sull’esistenza di Dio» (nella migliore tradizione – parrebbe – del grande romanzo alla Dostoevskij e alla Tolstoj), poco dopo le giustifica asserendo che, «proprio in queste chiacchiere senza spina dorsale, mi sembra che trapeli l’intensità parossistica di una esperienza incomparabile qual è un GULag».
Un po’ poco, forse, per reggere un’opera che accarezza non poche ambizioni.
Giovanna Parravicini
Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.
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