Lo spirito di Helsinki non è morto

30 Luglio 2025

Lo spirito di Helsinki non è morto

Mario Mauro

Cinquant’anni fa 35 paesi firmarono degli accordi che siglavano il calo della tensione internazionale guardando alla collaborazione. Furono anche un appiglio per i dissidenti all’Est. Cosa resta oggi del loro spirito?

«Il nostro treno è in fiamme e non abbiamo più pulsanti da premere».

Con queste rime, scritte nel 1988 ma ancora taglienti e dolorosamente attuali, gli Akvarium – una delle band dissidenti più famose della Russia sovietica, oggi purtroppo immersa nel silenzio più assoluto della repressione di Putin – descrivevano il senso di disperazione di una generazione che vedeva nel collasso dell’impero sovietico la fine di un mondo a loro familiare, di cui oggi, tolto il sedicente velo ideologico comunista, non rimane altro se non una fredda autocrazia, che vede nell’uso della forza l’unico vero strumento di politica estera ed interna.

Non è certamente più un mistero il fatto che Putin si garantisca ogni giorno la sopravvivenza dimostrando ai suoi oligarchi di essere lui l’unico a poter dare le carte.

Oggi, il quadro geopolitico intorno a noi e le prove ormai evidenti di una guerra mondiale a pezzi, che ogni giorno minaccia di unirsi in un unico grande conflitto, sembrano collimare con la metafora di questo treno in fiamme lanciato alla massima velocità verso una catastrofe.

Quanto costruito tra il 1973 e il 1975, ad Helsinki con la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), è ancora attuale? Esiste ancora una possibilità di dialogo con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina e le continue provocazioni del Cremlino sul fianco orientale? Che valore ha la diplomazia nel mondo di oggi? Questi sono gli interrogativi che ci troviamo a dover affrontare pensando alla realtà che ci circonda.

Cinquant’anni fa, trentacinque paesi decisero di scegliere la via della cooperazione e della diplomazia culturale per spezzare la logica imperialista della deterrenza nucleare e delle cosiddette «guerre per procura», con cui sia il blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti e dai paesi NATO, sia il blocco sovietico, guidato dall’Unione Sovietica e dal Patto di Varsavia, avevano monopolizzato la politica mondiale.

Ad Helsinki nacque quello che oggi conosciamo con il nome di Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), costituitasi in un’organizzazione internazionale stabile nel 1995.

Lo spirito di Helsinki non è morto

Delegati dell’OSCE in visita ufficiale in Ucraina, giugno 2022. (OSCE – wikipedia)

Negli ultimi cinquant’anni, e soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’OSCE ha strutturato la propria azione su tre dimensioni: quella politico-militare, quella economico-ambientale e quella umana.

Sul piano politico-militare è stato fatto molto – e continua ad essere fatto molto – sul controllo e la distruzione di armi leggere e ordigni bellici nei paesi che sono stati o che sono tuttora teatro di scontri armati. Pensiamo a quanto fatto incessantemente allo scoppio delle ostilità in Ucraina con la guerra del Donbass nel 2014, oggi degenerata in una guerra su vasta scala a causa dell’invasione russa. Infatti, la Missione speciale di monitoraggio dell’OSCE (SMM) nel Donbass, istituita proprio nel 2014, ebbe il compito di controllare i cessate il fuoco, ritirare le armi pesanti, assicurare la libertà di movimento per gli osservatori e facilitare il dialogo tra le parti in conflitto, raccogliendo informazioni sulle violazioni del cessate il fuoco.

In realtà la missione dovette affrontare numerose difficoltà, tra cui le minacce agli osservatori. Dopo l’escalation del conflitto nel febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina, il mandato della SMM, scaduto il 31 marzo 2022, non è stato rinnovato per l’opposizione della Russia.

Ma pensiamo anche a quanto l’OSCE ha fatto nei Balcani per quanto riguarda lo sminamento umanitario e il lavoro di cosiddetto land-release, che negli ultimi vent’anni ha restituito centinaia di chilometri quadrati alla popolazione, dando la possibilità a intere comunità di tornare a vivere sulla propria terra.

L’aspetto ambientale ha visto l’OSCE promuovere i principi di buon governo, il contrasto alla corruzione, la promozione delle tematiche ambientali. Alcuni degli esempi più rilevanti si sono avuti nei paesi dell’Asia Centrale, dove – dopo il ritiro russo – l’OSCE si è impegnata nella gestione di situazioni di estrema gravità, come la scomparsa del lago d’Aral, che ha devastato l’economia locale di Kazachstan e Uzbekistan. Oppure il lungo e per anni segreto processo di bonifica della base nucleare di Semipalatinsk, nel nord-est del Kazachstan.

Infine, la dimensione umana è ciò che più ci può rendere il valore di un progetto così longevo e lungimirante. Attraverso l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR), un organo interno all’architettura dell’OSCE, è stata fornita assistenza agli Stati membri per tutelare le libertà fondamentali e, soprattutto, lo sviluppo di una stampa indipendente e di una vita democratica al di là di quella che fino al 1990 chiamavamo «Cortina di ferro».

Recentemente, ODIHR è tornato ad occuparsi della Georgia con le contestate elezioni del 2024, e ogni giorno lavora a stretto contatto con la società civile georgiana per ricostruire il tessuto sociale e allontanare definitivamente lo spettro della guerra del 2008 dalle nuove generazioni, che sognano l’Europa e un futuro migliore.

Se andiamo a vedere la realtà sul campo, lo spirito di Helsinki è tutt’altro che scomparso. Eppure, il mondo sembra essere intenzionato a proseguire in una direzione molto diversa. Dal Medio Oriente all’Ucraina, dall’Iran al Pacifico, passando per le ex Repubbliche caucasiche e dell’Asia Centrale, c’è bisogno della stessa ambizione di cinquant’anni fa.

Cosa manca oggi? Manca la politica. Mancano persone aperte al dialogo e che abbiano la volontà di rimettere al centro la diplomazia e l’Europa come luogo di incontro e di dialogo tra Est e Ovest. Nella politica di oggi manca la capacità di saper costruire ponti. Cinquant’anni fa, quello che accadde ad Helsinki non fu un miracolo, bensì il frutto del lavoro di mediazione e di diplomazia portato avanti da figure chiave della politica internazionale.

Tra queste troviamo Giorgio La Pira, storico sindaco di Firenze e uomo politico che del fare la pace fece una vera e propria arte, attraverso la partecipazione giovanile e il dialogo politico e interreligioso.

Un altro pilastro di questo approccio politico era senz’altro l’ex presidente del consiglio, nonché presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, che per tutta la sua carriera politica si adoperò per rendere l’Italia un ponte tra Est e Ovest, cercando di superare la logica di contrapposizione dei blocchi e di spingere per l’abbandono della cosiddetta mutual assured destruction, ossia la dottrina dell’annientamento reciproco assicurato della Guerra Fredda.

La via alla pace esiste ed è stata tracciata. Ora sta alle nuove generazioni, e soprattutto alla politica, decidere se seguire il solco o se lasciarsi convincere dalla propaganda imperialista, che tutto è già scritto, che «il nostro treno è in fiamme e non abbiamo più pulsanti da premere» e che non c’è altra via se non quella della guerra.

Akvarium, Il treno in fiamme (B. Grebenščikov, 1988).


(Immagine d’apertura: l’apertura della CSCE a Helsinki, 1975 – wikipedia)

Mario Mauro

Laureato in filosofia all’Università Cattolica di Milano. È stato vicepresidente del Parlamento europeo, ministro della difesa italiano, rappresentante della presidenza OSCE per la libertà religiosa. È esperto di politiche educative e geopolitica e autore di diverse pubblicazioni. È stato Incaricato speciale dell’OSCE per la libertà religiosa dal 2007 al 2010. Attualmente è presidente del Centro studi Meseuro per l’Europa del Mediterraneo.

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