Larisa Bogoraz e il prezzo della libertà

17 Novembre 2025

Larisa Bogoraz e il prezzo della libertà

Adriano Dell’Asta

Ricordando la figura del dissidente Anatolij Marčenko, morto in prigione 40 anni fa, non si può non menzionare la forza morale di sua moglie Larisa, che affrontò la vita con una indomita coscienza della verità.

L. Bogoraz (1929-2004). (museum.khpg.org)

Il superamento della paura è un passo decisivo quando si sta di fronte a un regime dittatoriale o totalitario e si cerca di liberarsene; o almeno così parve a un intellettuale russo subito dopo l’arresto di Anatolij Marčenko nel luglio del 1968, avvenuto in seguito a un suo intervento in difesa della primavera di Praga e contro il rischio presto divenuto realtà di una sua precoce interruzione ad opera del potere sovietico: «Che cosa faranno di fronte a gente che non ha più paura?», si chiese Venjamin Kaverin (1902-1989), uno scrittore che dopo l’ennesima mazzata ricevuta con gli attacchi ždanoviani al formalismo, cominciava a superare la paura, ad «alzare la testa dal tavolo» e a «raddrizzare la schiena» e ad esempio non aveva partecipato alla campagna di attacchi contro Pasternak.

Kaverin aveva intuito che un passo come quello di Marčenko avrebbe potuto suscitare un pericoloso desiderio di imitazione; come avrebbe detto più tardi Larisa Bogoraz, divenuta nel frattempo (1971) moglie di Marčenko, «le nostre autorità capivano quello di cui io, forse, non avevo ancora pienamente coscienza: se lasciavano che qualcuno potesse vivere come credeva, altri avrebbero voluto imitarlo. Un solo uomo che si sottrae alla trappola della dipendenza basta perché un regime simile non tenga più».

In effetti, regimi di questo tipo reggono perché e finché i loro sudditi si piegano ai mille ricatti del potere: la carriera, i privilegi, il desiderio di non trovarsi isolati in un mondo che faceva della solitudine uno dei suoi strumenti privilegiati di dominio; sono tutti elementi che cadono quando si smette di avere paura, quando si restaura quella catena di solidarietà che costituisce uno dei principi fondamentali dell’umano.

Quando l’atomizzazione comincia a essere erosa, è il regime stesso che inizia a vacillare e i suoi avversari potrebbero anche vincere. O almeno così sembrava a Veniamin Kaverin.

Disperati, ma con una speranza

In realtà le cose non sono così semplici; come la storia ha documentato, si può vincere ma si può anche perdere sino a morire; e l’alternativa tra la vita e la morte non è irrilevante, tanto più che spesso a prevalere è il secondo polo dell’alternativa, come ha dimostrato la storia recente di Aleksej Naval’nyj, che aveva iniziato ad «alzare la testa dal tavolo» col suo motto «io non ho paura, non abbiatene neanche voi» ma che alla fine non aveva ottenuto la vittoria, al suo posto era arrivata la morte.

Nella lotta con il potere si può dunque vincere, ma anche morire, come aveva dimostrato prima ancora di Naval’nyj la storia dello stesso Marčenko, con la sua morte (8 dicembre 1986) per uno sciopero della fame, che a prima vista era stato del tutto inefficace, ma che ben presto avrebbe avuto un esito ben diverso: perché, apparentemente non era cambiato nulla, ma in realtà stava cambiando il mondo e di lì a poco sarebbe iniziata la serie di liberazioni dei detenuti politici per i quali Marčenko si era sacrificato.

Venendo alla vicenda di Larisa Bogoraz, possiamo proprio dire che questa è una verità verificata dalla storia. Subito dopo l’arresto di Marčenko ci fu un altro caso nel quale la storia sembrò disinteressarsi dei sacrifici degli uomini liberi e procedere secondo le sue leggi; e invece le cose andarono ben diversamente.

Il 25 agosto 1968, appunto poche settimane dopo l’arresto di Marčenko e quattro giorni dopo l’invasione di Praga, ci furono otto «disperati» che andarono sulla piazza Rossa a protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia. Gli otto disperati della piazza Rossa non cambiarono nulla, anzi pagarono il loro gesto con detenzioni più o meno lunghe e la fine delle loro carriere. Da un punto di vista immediato ed esteriore, un gesto inutile, coronato da un insuccesso. Eppure, il loro viene ancora oggi ricordato come un gesto che riscattò «l’onore e la dignità di una nazione di duecento milioni di persone».

E allora, forse dobbiamo cercare di capire quello che con una mentalità angustamente utilitarista ci illudiamo di capire al primo colpo, dopo una rapida e sommaria analisi dei risultati immediati e superficiali: non si tratta di sostituire la poesia o l’entusiasmo religioso alla realtà concreta e fattuale, ma di guardare la realtà con un approccio più concreto e fattuale, propriamente più scientifico: ci sono dei bacilli che vanno messi in un adeguato brodo di coltura per vedere come reagiscono, e per capire veramente cosa sono, se sono davvero innocui o non celano qualche sorpresa; uno di questi bacilli è la libertà.

L’uomo può cambiare, e quindi anche la storia

Tra quegli otto c’era Larisa Bogoraz, che sarebbe poi diventata la moglie di Marčenko; ma Larisa non era stata sempre una dissidente, anzi veniva da una famiglia di vecchi rivoluzionari, rivoluzionari convinti e persino privilegiati, tanto che lei stessa aveva finito per credere nell’ideologia.
Poi era successo qualcosa, aveva conosciuto Julij Daniel’ che le aveva fatto leggere Pasternak, un poeta che non aveva capito subito, ma che via via l’aveva portata ad amare la letteratura, allora aveva cominciato a «capire quei versi portatori di un’autentica libertà» e a scoprire con ciò stesso qualcosa che «aveva rivoluzionato tutti i suoi valori».

Una persona poteva pretendere di provare a cambiare un sistema apparentemente irremovibile, perché aveva sperimentato di essere cambiata lei stessa e di essere diventata responsabile dei destini del mondo – «per la vostra e la nostra libertà», diceva uno degli slogan portati quel giorno di agosto sulla piazza Rossa – con l’idea di una responsabilità per la quale valeva la pena rischiare tutto, dalla libertà alla vita.

Abbiamo la testimonianza rilasciata da Larisa al processo subito per la manifestazione sulla piazza Rossa:

«Io amo la vita e ho il gusto della libertà. Capivo che rischiavo la mia libertà e non volevo perderla. Non ho nessuna inclinazione a diventare un personaggio pubblico. … Per prendere la decisione di manifestare ho dovuto superare la mia inerzia, come la mia repulsione per tutto ciò che sa di ostentazione. Avrei preferito agire diversamente. Avrei preferito semplicemente sostenere della gente che, pensandola come me, fosse famosa. Famosa per professione o per posizione sociale. Avrei preferito unire la mia voce anonima alla loro protesta. Ma gente così non ne ho trovata da noi.
(…) Avevo dunque una scelta da fare: protestare o tacere. A mio modo di vedere, tacere avrebbe significato approvare atti che non approvo. A mio modo di vedere, tacere avrebbe significato mentire. Non penso che la forma di azione che ho scelto sia la sola giusta, ma per me rappresentava la sola decisione possibile. Se non avessi fatto quello che ho fatto, mi sarei sentita responsabile delle azioni del governo…».

In questa dichiarazione abbiamo già tutto quanto è fondamentale nella sua storia e nella storia di una parte significativa del dissenso di quegli anni e di sempre: non c’è alcun interesse personale e nessun desiderio di visibilità pubblica, ma pur sapendo che l’esposizione pubblica non è l’unica reazione possibile (non si gioca agli eroi), quello che, invece, per Larisa, è imperdonabile è l’inerzia: non si può restare inerti di fronte al male e alla menzogna perché, anzi, «tacere» sarebbe «mentire» e «approvare atti» che non è possibile approvare.

Questa posizione non è esclusivamente una forma di opposizione, o una presa di posizione «contro», ma è innanzitutto l’affermazione della verità, di una vita nella verità, che è tale perché determinata da un senso di responsabilità che si fonda su una ricerca inesausta della verità, che esiste anche se non possiamo pretendere di possederla e che in questo senso è un po’ come l’aria e Dio, dice Larisa nelle sue memorie: non li vedi, ma li senti e non puoi fare a meno di fare i conti con questa constatazione, rispondere alla provocazione della realtà, cioè, in una parola, sentirsi responsabile.

(krea.ai)

Il sacrificio, per l’anima

Il problema posto da Larisa è dunque quello di un approccio alla realtà che va rispettata nel suo mistero – il mistero del cuore che può cambiare persino la storia – come va rispettato il cuore stesso della singola persona nella sua irriducibilità, perché proprio questo era stato il male dell’ideologia comunista, pretendere di poter dominare la realtà fino a ricrearla: «Molti, in Russia come in Occidente, pretendono ancora che il comunismo proponesse un ideale di giustizia anche se poi è finito male. Per me, incarna il male perché intende trasformare ogni cosa: il corpo dell’essere umano, la sua anima, la sua coscienza».

Il male, nella ricostruzione di Larisa (a mio parere, è la ricostruzione più convincente dell’essenza di un sistema totalitario), pretende di sostituire la realtà con un’idea e così cerca di trasformare le anime, esige da noi una completa «resa dell’anima», appunto, la trasformazione, la riforgiatura (perekovka) della coscienza.

Decisiva per questo percorso di riscoperta e di salvaguardia della coscienza era, ed è, la possibilità di giudicare quello che era avvenuto perché, sostiene Larisa, tutti i problemi della Russia (allora come oggi, e sempre) «derivano dal fatto che il suo passato sovietico non è stato sufficientemente analizzato e respinto» e ha quindi potuto perpetuarsi in quella che era la sua caratteristica fondante, quella di essere «fondato sulla menzogna», come avrebbe detto sempre Solženicyn, sull’ideologia o, meglio, sulla forma ideologica di pensiero: non si tratta di una ideologia particolare, ma della sempre rinnovata pretesa di sostituire ai fatti la loro interpretazione o, oggi, i «fatti alternativi».

A questo punto bisogna capire perché il movimento del dissenso, che denuncia così chiaramente il male essenziale del regime, non si lasci imprigionare in un semplice movimento di opposizione, in una semplice presa di posizione «contro». La chiave mi pare essere nella concezione di libertà in persone come Larisa Bogoraz, cioè, in persone che amano la libertà e la vita sino al punto di mettere in gioco proprio la loro libertà personale e persino la vita stessa: c’è qui un paradosso, quasi un controsenso, che va chiarito. Per Larisa Bogoraz il bisogno di libertà è essenziale per l’uomo, eppure arriva a rinunciare alla libertà e poi anche alla vita: «Anatolij poteva vivere in libertà, ma ha coscientemente scelto la prigione, perché altri fossero liberi»; qui sta un primo passaggio chiave, nell’idea di un sacrificio accettato per il bene degli altri.

La libertà, per l’anima del mondo

L’ulteriore passaggio è approfondire il concetto di libertà, che noi normalmente intendiamo secondo un’alternativa per cui, per sottrarsi alla schiavitù, non c’è altra via se non quella della ribellione e della pura assenza di regole; l’alternativa proposta nelle testimonianze dei dissidenti, di allora come dei nostri tempi, non è la sola rivolta, se non si china la testa non è per fare quello che si vuole, ma perché si è responsabili: il sacrificio che non è rinuncia alla propria libertà, ma sua esaltazione, è tale perché nasce dalla coscienza di essere responsabili, di far parte di un mondo nel quale c’è qualcuno e qualcosa a cui rispondere.

Qui Larisa Bogoraz ci offre una semplice ma illuminante riflessione linguistica sulle due parole russe per dire libertà: svoboda e volja. La prima indica la libertà che si ferma là dove comincia quella degli altri. La seconda, volja, evoca una libertà che non è limitata da nulla e che degenera rapidamente in anarchia. È totalmente determinata dal desiderio, mentre la svoboda implica la responsabilità. Ora, «l’individuo che rinuncia alla propria responsabilità si mette nelle mani dello Stato come uno schiavo». Per essere veramente libero dovrà accettare invece di passare attraverso la via del sacrificio, che non indica la banale rinuncia, ma il percorso per rendere sacro e fecondo ciò che si vive. Sarà un percorso lungo, diceva Larisa: perché la libertà «venga apprezzata più di un pezzo di pane, il mio popolo avrà bisogno di diverse generazioni».

Un percorso lungo anche per noi, come dice Naval’nyj: «Per far sì che venga al mondo un nuovo uomo due persone devono prima acconsentire al fatto di fare qualche sacrificio. (…) Esattamente lo stesso ci vuole perché nasca un nuovo paese libero e ricco: deve avere persone che lo vogliono, che lo attendono, che sono pronte a fare qualche sacrificio perché nasca. Nella certezza che il gioco vale la candela. Non è assolutamente necessario che tutti vadano in prigione. È un po’ una lotteria, e a me è capitato questo biglietto. Ma ciascuno è tenuto a fare qualche sacrificio, qualche sforzo».

«Per la vostra e la nostra libertà», dicevano i manifestanti della piazza Rossa nell’agosto 1968, e noi non dobbiamo dimenticare che quello slogan era quello degli insorti polacchi del 25 gennaio 1831, ed è anche la scritta che si legge a Montecassino, sull’obelisco innalzato nel cimitero dei soldati polacchi morti in Italia per difendere la nostra libertà durante la seconda guerra mondiale… Appunto, non è assolutamente necessario che tutti si sacrifichino, ma ciascuno è tenuto a fare qualche sacrificio, qualche sforzo per trasmettere la vita.

(Dall’intervento al convegno In memoria di Anatolij Marčenko, Milano 3-5.11.2025, di cui sono in preparazione gli Atti)


(Immagine d’apertura: Gemini)

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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