Bolesław Kominek, «perdoniamo e chiediamo perdono»

4 Dicembre 2025

Bolesław Kominek, «perdoniamo e chiediamo perdono»

Angelo Bonaguro

Bolesław Kominek, arcivescovo di Breslavia, fu l’artefice del celebre Messaggio del 1965 in cui i vescovi polacchi tesero la mano ai tedeschi con la formula «perdoniamo e chiediamo perdono». A 60 anni di distanza, vescovi polacchi e tedeschi si ritrovano nella sua città per ricordare quell’evento.

Quando nel novembre del 1965 i vescovi polacchi inviarono ai confratelli tedeschi il celebre Messaggio contenente la formula «perdoniamo e chiediamo perdono», sembrò a molti un gesto audace, forse persino ingenuo, visto che a vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale fra i due popoli c’erano ferite ancora aperte. Eppure, dietro quelle parole si celava una visione geopolitica di ampia portata, nata dalla mente di un «padre fondatore dell’Europa dimenticato», come è stato definito Bolesław Kominek, arcivescovo e cardinale di Breslavia. Nato nella Slesia divisa tra Polonia e Germania, in piena Guerra fredda, Kominek immaginò un’Europa unita, una visione profetica che avrebbe dato frutti nei decenni successivi.

Bolesław era nato il 23 dicembre 1903 a Radlin, nell’Alta Slesia prussiana, primo di nove fratelli in una famiglia operaia polacca fortemente legata alle tradizioni nazionali (lo stesso nome richiamava gli antichi sovrani polacchi). Nella ricca regione slesiana, la maggioranza della popolazione di lingua polacca occupava però i gradini più bassi della scala sociale, mentre i quadri dirigenti, i proprietari terrieri e i ruoli amministrativi erano quasi sempre rappresentati da tedeschi.

Con la dissoluzione degli imperi, le tensioni etniche di quella società complessa e stratificata si acuirono, trasformando la regione in un terreno di scontro tra i nazionalismi polacco e tedesco che portò alla divisione territoriale: la maggior parte della Bassa Slesia rimase alla Germania, mentre l’Alta Slesia fu spartita con la neonata Polonia. Quando il giovane Bolesław sostenne l’esame di maturità nel 1923, era cittadino polacco a pieno titolo.

Studiò poi teologia presso l’Università Jagellonica, dove ebbe come professori i migliori rappresentanti dell’intelligencija cattolica, che sarebbe stata sterminata dai nazisti nel 1939. Ordinato sacerdote nel 1927, fu inviato all’Institut Catholique di Parigi dove ottenne il dottorato in filosofia tomistica e la licenza in scienze sociali. Kominek non si limitò allo studio, ma durante il soggiorno lavorò tra gli emigrati polacchi e conobbe i fermenti intellettuali che attraversavano la Chiesa locale. La sua doppia appartenenza nazionale, infatti, lo aveva reso molto sensibile alla necessità del dialogo. Tornò in Polonia nel 1930 con un bagaglio culturale straordinario: parlava quattro lingue e conosceva la filosofia tedesca, la teologia francese, la tradizione tomistica.

Nel 1931 il vescovo di Cracovia lo volle con sé affidandogli in modo particolare la gestione dell’Azione Cattolica in un periodo in cui il totalitarismo avanzava in tutta Europa. E la Slesia, terra di confine, era particolarmente esposta. Nel settembre 1939 con l’invasione nazista della Polonia anche l’Alta Slesia polacca fu annessa al Reich, e l’intera regione fu riorganizzata in un unico distretto industriale, che con le sue miniere di carbone e le acciaierie divenne un pilastro essenziale dell’economia di guerra.

Breslavia

Il municipio di Breslavia alla fine della guerra. (wikipedia)

Durante la guerra Kominek svolse attività caritativa e pastorale a Lublino, aiutò i prigionieri e gli internati nei campi di concentramento, trasmise rapporti alla Santa Sede sulla situazione della Chiesa nei territori occupati. Era inoltre cappellano dell’esercito clandestino polacco, e plenipotenziario del governo in esilio per le questioni ecclesiali e sociali. Di fronte al suo impegno patriottico, può sembrare strano trovare il suo nome nella Volksliste, lo strumento introdotto dai nazisti nel 1941 per classificare la popolazione delle terre annesse: chi era sulla lista riceveva la cittadinanza tedesca, e con essa l’obbligo di arruolamento nella Wehrmacht. Accettare di essere inseriti era considerato da molti un atto di collaborazionismo, ma rifiutarsi significava rischiare l’arresto e l’internamento, per questo lo stesso governo polacco in esilio sostenne coloro che «firmavano», posizione condivisa dai movimenti indipendentisti e dalla Chiesa cattolica. Verso la fine del ’42 la Volksliste comprendeva 3.124.000 nomi, di cui quasi la metà dell’Alta Slesia.

Nell’immediato dopoguerra Kominek fu nominato amministratore apostolico della cosiddetta «Slesia di Opole», la parte occidentale dell’Alta Slesia, dove andava riorganizzata la vita ecclesiale: erano territori che erano stati tedeschi per secoli e ora erano polacchi, e dove convivevano la popolazione autoctona slesiana, i profughi polacchi espulsi dai territori orientali annessi dall’Unione Sovietica, e i pochi tedeschi rimasti. Non fu un compito semplice nel contesto di ripolonizzazione dell’epoca, in cui si avviò un processo che oggi definiremmo di cancel culture nei confronti del mondo tedescofono. D’altra parte, in Germania, i polacchi erano considerati responsabili dell’occupazione dei territori ad est dei fiumi Oder e Neiße che segnavano il confine occidentale della Polonia nel dopoguerra, e dell’espulsione di milioni di tedeschi da quelle zone. Così in Germania Kominek era considerato un nazionalista, mentre in Polonia era troppo indipendente per il regime comunista, che nel gennaio 1951 lo costrinse ad abbandonare Opole e a trasferirsi nella diocesi di Cracovia.

Nel 1954 fu consacrato clandestinamente vescovo di Breslavia, città della bassa Slesia; clandestinamente perché quelli erano anni caratterizzati dalla persecuzione antireligiosa che comportò arresti, deportazioni, processi farsa, la chiusura di seminari, la confisca delle proprietà ecclesiastiche, fino al clamoroso arresto del primate Wyszyński. Solo nel 1956, sulla scia del disgelo post-staliniano, Kominek poté finalmente prendere possesso della sede.

Breslavia era una città di memorie sovrapposte, di identità confuse: sede vescovile dal 1000, germanizzata per oltre un secolo, nel 1945 era tornata polacca. Il nuovo vescovo doveva essere il pastore di tutti, dei nuovi arrivati che dovevano imparare ad amare quella città che non avevano scelto, degli autoctoni slesiani che non si sentivano né polacchi né tedeschi, dei pochi tedeschi rimasti che guardavano con nostalgia a un passato ormai perduto. Kominek vi lavorò per diciotto anni, fino alla sua morte nel 1974, dedicando molta attenzione all’integrazione sociale, al lavoro pastorale, alla ricostruzione delle chiese, al lavoro con il clero, alla pastorale universitaria. Era un pastore instancabile, ma anche un pensatore, un visionario che guardava oltre i confini del mondo comunista.

Bolesław Kominek, «perdoniamo e chiediamo perdono»

Kominek nel 1967. (youtube)

Il Concilio, trampolino di lancio del Messaggio

Il Concilio Vaticano II, iniziato nel 1962 e conclusosi tre anni dopo, era stato l’occasione per i vescovi polacchi e tedeschi di incontrarsi, dialogare, lavorare insieme. Anche Kominek, insieme a Wyszyński e ad altri vescovi polacchi, partì per Roma.
Sulla scia del Concilio, nell’autunno del ’65 Kominek aveva presentato le sue riflessioni in merito al dialogo polacco-tedesco nell’articolo Proposte di dialogo con la Germania, destinato al «Tygodnik Powszechny» ma bloccato dalla censura. Nel testo sosteneva che la Chiesa, per sua natura universale, costituisce una piattaforma naturale per il dialogo internazionale, ed entrambi i popoli condividevano la responsabilità per i problemi contemporanei, a cominciare dalla pace. Richiamandosi all’idea di Paolo VI espressa nell’Ecclesiam suam secondo cui il dialogo deve essere «costantemente riavviato», nel preparare il successivo Messaggio dei vescovi polacchi sviluppò queste riflessioni, mostrando la via del perdono nel contesto dei mille anni di relazioni polacco-tedesche e dell’insegnamento conciliare.

Lo storico Robert Żurek ha ricordato che poco prima della stesura del Messaggio Kominek aveva trasmesso una nota confidenziale all’episcopato tedesco in cui sottolineava che

«il futuro è l’Europa, i nazionalismi sono di ieri», e postulava «l’approfondimento della discussione su una soluzione organizzativa federale per tutti i popoli d’Europa, anche attraverso la graduale rinuncia alla sovranità nazionale nelle questioni di sicurezza, economia e politica estera».

La Polonia faceva parte del blocco orientale, il comunismo sembrava saldamente al potere, la Guerra fredda era al suo apice, eppure il vescovo di Breslavia pensava già a un’Europa unita, era convinto che la Polonia non potesse vivere eternamente nella paura e nell’ostilità verso la Germania.

Kominek aveva vissuto la complessità della Slesia, sapeva che la storia non è mai bianca o nera, che le vittime di ieri possono essere i carnefici di domani, che la riconciliazione è possibile solo se si riconosce la complessità che lui stesso aveva provato sulla propria pelle sin da bambino, quando a scuola era proibito parlare polacco, e in famiglia lo sgridavano se gli scappava qualche parola in tedesco… Nel suo pensiero ecclesiologico, egli insisteva sull’idea di Chiesa come communio di persone unite da Cristo, capace perciò di trascendere le frontiere, le lingue, le culture. Una realtà spirituale che porta con sé conseguenze concrete, politiche: se siamo tutti fratelli in Cristo, allora dobbiamo cercare la riconciliazione anche quando sembra impossibile.

Dal punto di vista «politico», il Messaggio costituiva una sfida radicale alla narrazione storica del regime comunista, offrendo un’interpretazione del passato che era in opposizione con quanto veniva insegnato nelle scuole. Nel documento si ripercorrevano i mille anni di storia polacca, sottolineando come la Polonia fosse entrata nella cristianità latina proprio grazie ai contatti con l’impero di Ottone III, si ricordavano con gratitudine i secoli di scambio culturale fecondo con i popoli «occidentali», in particolare con le regioni tedesche: l’arrivo dei benedettini, dei cistercensi, l’adozione del diritto di Magdeburgo (che regolava l’autonomia dei borghi), l’opera di artisti come Veit Stoß, le figure di santi, prima fra tutte Edvige di Slesia, definita «il miglior esempio di ponte cristiano tra Polonia e Germania».

Il testo, tuttavia, non nascondeva le ferite della storia: dal triste periodo dei Cavalieri Teutonici alle spartizioni della Polonia, fino alla tragedia del nazismo, che fece soffrire anche molti tedeschi: al proposito, si ricordavano figure coraggiose come il vescovo von Galen o i ragazzi della Rosa Bianca. Era qualcosa di «sovversivo», un documento che descriveva mille anni di vicinato polacco-tedesco in termini molto diversi dalla propaganda ufficiale: non una minaccia continua, ma una relazione complessa da cui la Polonia aveva tratto anche dei vantaggi. Infine, la Seconda guerra mondiale veniva presentata non come una vittoria della Polonia, ma come una profonda ferita nazionale, e descriveva l’acquisizione dei nuovi territori da cui erano stati espulsi i tedeschi (che nella narrazione del regime era presentata come una «giustizia storica») come un processo doloroso che aveva colpito tanto i tedeschi quanto i polacchi: «Il confine sull’Oder e sulla Neiße è per i tedeschi il frutto amarissimo dell’ultima guerra, della distruzione di massa, così come lo è la sofferenza di milioni di profughi e sfollati tedeschi».

E poi il finale che avrebbe fatto storia: «Animati da questo spirito profondamente cristiano e umano, tendiamo le mani a voi, seduti qui ai lavori conclusivi del Concilio. Vi accordiamo il perdono e, al tempo stesso, lo invochiamo da voi.

Se voi, vescovi tedeschi e padri del Concilio, accoglierete con spirito fraterno le nostre mani tese, allora potremo celebrare il nostro Millennio con la coscienza in pace, nel modo più autenticamente cristiano».

Fu un passo particolarmente coraggioso perché non solo offriva il perdono ma riconosceva esplicitamente che anche i polacchi avevano qualcosa da farsi perdonare. Kominek doveva certamente prevedere che la lettera avrebbe scatenato una tempesta nei rapporti tra Stato e Chiesa. Ma probabilmente sperava di mettere in scacco il regime: come avrebbero potuto i comunisti attaccare la Chiesa per un gesto che serviva allo stesso tempo la ragion di Stato, contribuendo al riavvicinamento con la Germania e quindi al riconoscimento del confine sull’Oder, questione cruciale per il regime?

In Italia. (1965-2025.eu)

La scintilla continuò a brillare

Fu la risposta tiepida dei vescovi tedeschi a permettere alle autorità comuniste di aver gioco facile nell’attaccare la Chiesa accusando i vescovi di voler indebolire i legami tra la Polonia e l’Unione Sovietica. La campagna statale ebbe successo, ma – attraverso la sua invadenza e tendenziosità, e nonostante gli attacchi smodati alla persona del primate – non provocò la rottura tra la società e la Chiesa, e fu l’occasione per molti di comprendere che non si può vivere continuamente nell’odio, anche quando non nasce dal nulla.

Da parte tedesca si preferì adottare un tono diplomatico, i vescovi (41 firmatari, tra Germania occidentale e DDR) accettarono l’invito alle celebrazioni per il Millennio del Battesimo della Polonia, ma evitarono di entrare in merito alla questione della frontiera e del riordino delle diocesi, e chiesero comprensione per il dolore dei milioni di tedeschi espulsi dalle loro terre in Slesia, Pomerania e Prussia orientale.

Dietro questa freddezza – nota ancora Żurek – si celava uno scontro tra concezioni diverse rispetto al processo di riconciliazione: i vescovi polacchi avevano compiuto un gesto grande e inaspettato, ma non si erano preoccupati di preparare la società, da anni sottoposta alla propaganda comunista e piena di risentimento verso la Germania. Da parte loro, i vescovi tedeschi sapevano che anche il loro gregge non era preparato a una revisione radicale dell’approccio verso la Polonia, e scelsero la strategia dei piccoli passi senza voler entrare in quelle che definirono «polemiche politiche».

Come se non bastasse, anche all’interno della Chiesa polacca ci furono difficoltà ad accettare il contenuto del Messaggio, e l’episcopato fece parzialmente marcia indietro. Solo il primate Wyszyński, che da subito aveva appoggiato Kominek, mantenne una grande determinazione e respinse pubblicamente le accuse delle autorità.

Bolesław Kominek, «perdoniamo e chiediamo perdono»

La prima pagina del Messaggio. (Archivio Arcidiocesi di Breslavia)

Insomma, sembrava che quel Messaggio, redatto a Fiuggi tra il 7 e il 13 ottobre 1965 presso l’istituto delle suore elisabettine, fosse destinato al fallimento. Eppure – ricorda lo storico Andrzej Grajewski – quell’iniziativa aprì la strada a un cambiamento epocale perché aveva mostrato al mondo che la Chiesa polacca non era solo un baluardo contro il comunismo, ma era anche capace di iniziative di riconciliazione, di visione europea, di audacia profetica. L’intellettuale tedesco Winfried Lipscher ha scritto che «probabilmente [Kominek] non si rendeva conto di essere un grande europeo, ma certamente gli era già chiara l’Europa unita, proprio quella che avrebbe compiuto passi sicuri verso il futuro». Intanto l’arcivescovo pagò un prezzo personale per le sue scelte, visse sotto costante sorveglianza della polizia politica (gli archivi dell’Istituto della Memoria Nazionale conservano 33 tomi di fascicoli operativi su di lui). Fu osteggiato, spiato, diffamato, eppure aveva posto un seme che avrebbe dato i suoi frutti nel corso dei decenni successivi, uno fra tutti il papa polacco, come ha ricordato Żurek in un’intervista al «Tygodnik Powszechny»: «Abbiamo resoconti che confermano che durante il conclave del 1978, l’elezione di Wojtyła fu in gran parte determinata dai voti dei cardinali tedeschi».

C’è un episodio che risale agli anni ’60, banale ma che rivela la sua visione di un’Europa riconciliata e senza frontiere: mentre attraversava il confine austriaco a Klagenfurt, il suo segretario si avvicinò ai doganieri per il controllo dei documenti e annunciò che stava passando l’arcivescovo di Breslavia. I doganieri austriaci risposero che non era necessario alcun controllo, che fosse il benvenuto, non restava altro da fare che sollevare la sbarra e augurargli buon viaggio.

Kominek scese, si avvicinò agli agenti, li abbracciò e disse: «Sapete, signori, così mi immagino la futura Europa, anche se voi avrete un po’ di lavoro in meno!…».

Il dialogo polacco-tedesco proseguì attraverso canali religiosi, culturali e politici nei decenni successivi. La «scintilla della riconciliazione», come l’ha definita in questi giorni l’arcivescovo di Breslavia Józef Kupny, continuò a brillare nell’ombra. Kominek morì il 10 marzo 1974, senza poter vedere la caduta del Muro di Berlino, l’allargamento dell’Unione Europea, la creazione dello spazio Schengen, quell’Europa senza sbarre da sollevare che aveva sognato.

A 60 anni di distanza, il Messaggio non ha perso la sua forza, anzi, in un’Europa che sembra aver dimenticato le ragioni profonde della sua unità, che si dibatte tra nazionalismi riemergenti, risuona con rinnovata urgenza. Il perdono di cui parla Kominek non è un perdono a buon mercato, non è un oblio delle ingiustizie subite, non è una resa, ma un atto di lucidità e di coraggio: è riconoscere la propria e l’altrui sofferenza senza lasciare che diventi motivo di vendetta, è riconoscere le responsabilità senza cedere al senso di colpa paralizzante, è tendere la mano pur sapendo che si potrebbe non essere ricambiati.

Il suo lascito è un modo di pensare la Chiesa e l’Europa: una Chiesa che non si identifica con una nazione, ma è ponte tra i popoli, e un’Europa che non è costruita sull’oblio delle ingiustizie, ma sulla memoria trasformata dal perdono.


(foto d’apertura: il monumento che ricorda Kominek a Breslavia • Aw58, wikipedia)

Angelo Bonaguro

È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.

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