A 80 anni dalla vittoria, cosa si è festeggiato?

24 Maggio 2025

A 80 anni dalla vittoria, cosa si è festeggiato?

Adriano Dell’Asta

Ottant’anni fa finiva la Seconda guerra mondiale in Europa. Sei terribili anni di orrore: 60 milioni di morti, 156 milioni di mutilati. E alla fine la vittoria sul nazifascismo. Ma nella Russia di oggi si celebra un mito senza più connotati storici né autentica memoria, dove a vincere fu Stalin e non la gente coi suoi sacrifici. Eppure la speranza c’è, dicono alcune voci della società civile: consiste nella coscienza e nella sua ricerca mai conclusa della verità, perché l’umanità è viva e non le bastano le facili idealizzazioni o il risentimento né il nuovo mito di una violenza liberatrice.

Ormai da anni nella Russia putiniana, la fondata e giusta memoria della vittoria sul nazifascismo, frutto del sacrificio immane dei popoli dell’Unione Sovietica, si è trasformata nel mito della grandezza di Stalin e della rinnovata affermazione del culto della violenza e della potenza militare dello Stato. O per lo meno, così viene presentata dalla propaganda, con parate e discorsi che celebrano questa potenza e colgono nella guerra in corso contro l’Ucraina la continuazione di quella conclusasi nel 1945. Si tratta di una narrazione di cui vanno sottolineate tanto la novità quanto la discutibilità.

Inizialmente, infatti, ancora sotto Stalin, per una lunga fase si era preferito celebrare piuttosto la Rivoluzione d’ottobre, per una sorta di pudore rispetto ai quasi trenta milioni di morti (tra civili e militari) che la guerra era costata all’URSS; alla luce della sua dissennata conduzione staliniana forse si era ritenuto opportuno non richiamarne troppo da vicino i costi, anche considerando che i protagonisti di quella tragica epopea erano ancora presenti e avevano viva la memoria di tanti sacrifici.

In seguito, a partire dagli anni Sessanta, si era iniziato a celebrare soprattutto il trionfo bellico. Prima si era esaltata la vittoria della potenza sovietica e poi sempre più, soprattutto in questi ultimi anni, la vittoria di Stalin, a dispetto del giudizio quasi unanime degli storici, secondo i quali in Unione Sovietica la guerra era stata vinta non grazie a Stalin, ma nonostante Stalin: innanzitutto perché nelle purghe degli anni Trenta il dittatore aveva decapitato i vertici dell’Armata Rossa; perché, ancora, nel 1939, con il patto Molotov-Ribbentrop e i suoi protocolli segreti di spartizione dell’Europa aveva lasciato via libera a Hitler; e infine perché, durante la guerra, aveva mandato letteralmente al macello i suoi soldati e la popolazione civile, condannando i primi a non potersi arrendere per non essere considerati traditori (era stato il famigerato ordine «non un passo indietro», emanato il 28 luglio 1942) e sacrificando i secondi in operazioni la cui validità militare viene ampiamente contestata (come è il caso dell’assedio di Leningrado, i cui abitanti avrebbero potuto essere evacuati, prima di restare intrappolati in una morsa disperata).

Malinovskij

Il ministro della Difesa sovietico Malinovskij alla parata militare sulla Piazza Rossa, 9 maggio 1965. (wikipedia)

Il mito che subentra alla storia

Al posto di questa valutazione storiografica oggettiva, a prevalere oggi è, invece, la creazione di un mito e, come ha ricordato di recente lo storico Andrej Zubov (già docente al prestigioso MGIMO di Mosca e oggi in esilio nella Repubblica Ceca, dove insegna all’Università di Brno), quella che all’inizio era ancora semplicemente «una grandissima festa», sia pur celebrata «con le lacrime agli occhi», è ormai diventata un aggressivo invito alla guerra: «Le lacrime si sono asciugate e abbiamo incominciato a dire di continuo “possiamo rifarlo”».

Il tema è stato sottoposto a un’interessante inchiesta da parte del portale indipendente Meduza i cui risultati confermano proprio questo scivolamento. Qualcuno, seguendo la narrativa ufficiale, lo accetta senza problemi: in fondo, osservava uno degli intervistati, non c’è niente di male a festeggiare la vittoria sul nazifascismo (comunque cara a tutti), esattamente come non si smette mai di festeggiare un compleanno anche se poi, nell’insieme della propria vita, uno può aver fatto qualcosa di non propriamente edificante e degno di memoria. Ma accanto a questa osservazione l’inchiesta di Meduza documenta la significativa presenza nella società civile di una coscienza ben più problematica, lontana da questa celebrazione acritica.

Innanzitutto, se è evidente che la data e la tragedia che essa ricorda non sono ancora usciti dall’immaginario popolare, altrettanto evidente è la coscienza di un radicale mutamento nella sostanza delle cose: non solo, ricorda Viktorija da Mosca, chi celebra oggi non ha quasi più nulla a che vedere con i protagonisti di un tempo, ma soprattutto è profondamente e tragicamente cambiata la situazione, perché allora «si era combattuto perché non vi fossero più guerre» e oggi si dovrebbe parlare di quella storia solo per conservare la memoria del dolore e il senso del male che la guerra costituisce in sé; invece, è proprio questa percezione dolorosa che è scomparsa.

È questo un punto sul quale insistono diverse testimonianze, come quella di Žanna (da Volgograd), che ricorda di quando nel lontano 1975, lei ancora bimba (aveva cinque anni) era stata educata proprio a questi sentimenti: il dolore della guerra e quindi il desiderio che quella combattuta dal nonno fosse l’ultima; i veterani «piangevano e si abbracciavano. E io allora mi chiedevo: ma se è festa perché piangono? Non dicevano: “possiamo rifarlo” (…). Tutto era molto tranquillo, c’erano le lacrime, ma insieme c’era la gioia perché i loro figli e nipoti avrebbero potuto vivere ed essere felici. Erano tutti convinti che, dopo tante sofferenze e tanti milioni di vittime, nessuno avrebbe voluto ricominciare una guerra».

Proprio su questo aspetto ha indirizzato la sua attenzione di storico Andrej Zubov, sottolineando sul suo canale Telegram l’importanza di questa consapevolezza: «La guerra è sempre una tragedia. Questo lo dobbiamo capire in modo assolutamente chiaro. Non importa come finisce, con una vittoria o una sconfitta (…). Sempre, in ogni caso significa la morte di moltissime persone, è la distruzione dell’economia nazionale, è un terribile trauma psichico. Perché molte persone che dovrebbero osservare il comandamento “non uccidere”, vanno e uccidono i loro simili. E se sopravvivono, tornano indietro ormai diverse. Tornano in ogni caso assassini.
Non importa come la si veda, anche se è l’assassinio di un nemico. Dopotutto, il nemico è una questione relativa. È una persona come te, che ha una famiglia come la tua da qualche parte in un altro paese, e anche lui, di solito, non è andato a combattere di sua volontà ma è stato mobilitato, mandato. Magari è stato ingannato dalla propaganda. Perciò, la guerra è sempre la cosa peggiore che ci sia. Sempre. La guerra non è la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra è la distruzione della politica come vita della comunità».

Nella storia russa passata questo era chiaro, ricorda sempre Zubov: «Quando ci fu la guerra del 1812, e poi la campagna oltre i confini dell’esercito russo (parlo del 1813-14) una campagna molto pesante e sanguinosa in Germania e Francia, lo zar Alessandro, (…) tornato in Russia dopo la sconfitta di Napoleone, avvisò in anticipo che non voleva archi di trionfo, né fuochi d’artificio, niente. (…) Non gli piaceva affatto quando nelle conversazioni private o ai banchetti iniziavano a parlare della guerra; interrompeva subito questi discorsi dicendo: “Non c’è niente di cui rallegrarsi, è morta tanta gente”».

Oggi, invece questa coscienza non solo è scomparsa ma, peggio, come sottolinea ancora l’inchiesta di Meduza, è stata sostituita dal suo contrario, da un senso di orgoglio e di soddisfazione. Per questo, dice Marija da Mosca, chi ha iniziato questa guerra ha «perso il diritto di festeggiare» perché, precisa Rita, sempre di Mosca, con la guerra iniziata nel 2022 «abbiamo distrutto la pace per la quale i nostri nonni, bisnonni, nonne e bisnonne hanno combattuto e sono morti» e, addirittura, si è dimenticato, dice provocatoriamente Aleksej, da Kiev, che «un regime genocida ne aveva vinto un altro. Cosa c’è dunque da festeggiare?». In realtà, commenta Julija dalla Bulgaria, non c’è proprio nulla da festeggiare quando si uccidono «dei fratelli».

E a proposito di fratellanze e solidarietà dimenticate, tra gli intervistati di Meduza c’è anche chi sottolinea l’opportunità di superare le attuali divisioni tra Russia e Occidente per tornare così a festeggiare un successo comune a tutti i popoli che allora combatterono contro il nazifascismo: sarebbe necessario, dice Kirill da Mosca, «festeggiare il 9 maggio insieme a tutti quelli che vinsero il vero fascismo».

A 80 anni dalla vittoria, cosa si è festeggiato?

Celebrazione della giornata della vittoria nel 1975 in una gremita Piazza Rossa. (wikipedia)

La storia, quella vera

E qui ancora prende spazio, attraverso questi interventi, l’importanza di una ricostruzione storica oggettiva e condivisa, nella quale la storia sia sottratta ai criteri della politica e una ricerca continuamente rimessa in discussione possa portare alla ricomposizione di un patrimonio comune nel quale siano conosciuti e giustamente apprezzati i contributi di tutti i popoli. È un’esigenza che viene particolarmente sottolineata da Andrej Zubov, preoccupato, in quanto storico, di ricordare il contributo dato alla vittoria dallo sforzo militare e umano degli occidentali, uniti all’identico sforzo dei popoli dell’Unione Sovietica.

Zubov osserva a questo proposito come sia assurda l’attuale pretesa russa di aver vinto la guerra senza una vera collaborazione dell’Occidente; anzi, precisa, «nel primo anno di guerra l’esercito si ritirava, non c’era alcuna capacità di resistenza. La svolta avvenne, più o meno attorno a Ržev e a Stalingrado [Ržev è una cittadina della Russia europea centrale, a sudovest di Tver’, nei cui pressi si svolsero nel 1942 diverse battaglie sanguinosissime (è entrata in uso l’espressione “il tritacarne di Ržev”): nella prima fase, all’inizio del 1942, i sovietici furono sconfitti; nella seconda, tra l’ottobre e la fine del 1942 la sconfitta toccò invece ai tedeschi, in contemporanea al crollo poi definitivo del fronte di Stalingrado – nda]. Questo fu alla fine del 1942.

Ma allora la svolta avvenne in generale su tutte le linee del fronte della Seconda guerra mondiale. La prima fase di questa svolta fu la vittoria della flotta americana sul Giappone a Midway, nel giugno del 1942. La seconda fu la vittoria degli inglesi sulla Germania e sulle truppe italiane a El Alamein [con la resistenza agli attacchi tedeschi nel luglio 1942 – nda], e la controffensiva del settembre-novembre del ‘42».

È certo una questione storica e come tale va lasciata agli storici; e tuttavia il suo significato va ben oltre il loro ambito specifico: l’impegno dello storico in questo caso non è una questione che riguarda astratti problemi da specialisti, ma mette in primo piano la necessità di superare luoghi comuni e censure inaccettabili; occorre superare il luogo comune che la grandezza di un paese sia legata alla sua potenza, contrapposta a quella di tutti gli altri paesi; e soprattutto deve diventare chiaro una volta per tutte che l’acquisizione di questa potenza non può giustificare il sacrificio di nessuna vita umana,

non può cancellare, dice Zubov, «il ricordo dei crimini mostruosi del regime comunista. Questi crimini contro la vita, contro la proprietà delle persone, hanno privato tutti di tutto. Questo è stato dimenticato da moltissimi.

Ma nella memoria si è conservata la stessa pseudo-ideologia secondo cui l’Unione Sovietica era una grande potenza, tutti la temevano, tutti la rispettavano. L’Unione Sovietica possedeva i kazaki, gli yakuti, gli armeni, e gli ucraini e i tatari, e anche gli ungheresi, i tedeschi nella DDR, i mongoli, i cechi, i bulgari e così via. Oh, che grande paese era! Il fatto che questo grande paese non desse al suo popolo una vita dignitosa, il benessere, una buona istruzione, e soprattutto libertà e diritto di proprietà, il diritto di impresa, il diritto di trasmettere la propria attività ai figli… A questo non pensano».

Questa, però, continua Zubov, non è una questione soltanto politica o per addetti ai lavori: per quanto si possa idealizzare la storia di un paese e per quanto si possa enfatizzare la grandezza di uno Stato, attraverso di loro non si potrà mai raggiungere la vera grandezza, quella della «dignità dell’uomo. Vuoi essere grande? Ottimo. Sii un grande autista, un grande scrittore, un grande attore, un grande agricoltore, beh, persino un grande politico in un paese normale, perché no? Ma le persone vengono abituate al fatto che non è così. La maggior parte delle persone da noi, sfortunatamente, non fa il proprio lavoro al più alto livello, però si gloria della pseudo-grandezza dell’impero».

E appunto qui si palesa il valore profondamente umano e civile del lavoro dello storico e di qualsiasi impegno legato all’informazione e all’educazione: sono lavori in cui è in gioco la coscienza: «La scienza storica rappresenta la coscienza. …Parla dei crimini che il popolo ha commesso e delle cose buone che ha fatto. Ogni popolo ha sia gli uni che le altre. La scienza storica aiuta, svelando i crimini del passato e mostrando a quali tristi conseguenze hanno portato, aiuta a non commetterli di nuovo e persino a detestarli. E mostrando come alcune azioni positive e degne abbiano portato a risultati positivi, essa contribuisce affinché queste azioni almeno tendano a ripetersi in ogni fase successiva dello sviluppo.

La storia, una storia veritiera, è necessaria come una coscienza veritiera. Una storia falsa è simile a una falsa coscienza».

E se non si dice la verità e non ci si preoccupa della verità dell’uomo, si potrà anche uccidere il drago, diceva uno degli intervistati di Meduza, ma solo per «diventare draghi a nostra volta».

L’inchiesta di Meduza e le osservazioni di Andrej Zubov, mostrano come questa coscienza e il lavoro per la sua rinascita, sia pur con poche possibilità di palesarsi pubblicamente, siano già all’opera nella società civile russa.

A 80 anni dalla vittoria, cosa si è festeggiato?

Omaggio al milite ignoto, sepolto presso le mura del Cremlino,  9 maggio 1999. (wikipedia)

Una delle testimonianze di questa rinascita è un testo reso pubblico dal detenuto di coscienza Aleksej Gorinov, che ricapitola e ci ricorda i punti essenziali della questione in gioco dall’anniversario della vittoria e dalla sua celebrazione.

«Oggi commemoriamo l’ottantesimo anniversario della vittoria sulla Germania nazista. L’avvenimento di quegli anni di guerra è storicamente sempre più lontano. E più si allontana, più le nostre autorità festeggiano in modo pomposo questo giorno, come se loro e noi tutti avessimo qualcosa a che spartire con quella guerra e quella vittoria. Come se fossimo stati noi, di recente, a congelare nelle trincee, a lanciarci all’attacco sotto il fuoco dei mortai, a bruciare nei carri armati e negli aeroplani, a soffrire la fame e a vivere sotto occupazione.
No, non siamo stati noi! Attraverso tutte queste sofferenze sono passati i nostri padri. E avendo sperimentato tutti gli orrori della guerra, avendola conosciuta in tutti i suoi aspetti, ci hanno lasciato in eredità il compito di custodire la pace.
Custodire significa fare tutto il possibile, tutto ciò che dipende da noi, perché la guerra non ci sia. Qui sta il nostro dovere storico nei confronti delle generazioni dei nostri padri, che hanno combattuto per garantirci una vita pacifica. Per questo li commemoriamo. Altrimenti che senso avrebbero avuto i sacrifici umani offerti dalla nostra patria in quella guerra?
La nostra generazione sta assolvendo il suo compito?
Da quattro anni il nostro paese sta combattendo una guerra, cominciata per sua iniziativa, contro i propri vicini, contro quelli con i quali i nostri comuni predecessori hanno sconfitto insieme il nemico. Oggi i loro nipoti e pronipoti da entrambe le parti del fronte vengono uccisi e mutilati. Come si è potuto arrivare a tanto?
Poteva immaginare mio padre, ferito gravemente a Ržev e sopravvissuto per miracolo dopo aver passato un anno e mezzo negli ospedali militari, che ottant’anni dopo suo figlio sarebbe stato privato della libertà per otto anni solo perché ritiene che la guerra sia il peggiore dei mali e interviene a favore della pace? E questo non succede solo a me.
E cosa avrebbe detto a questo proposito il nostro amico di famiglia Michail Radenko, di Kiev, insignito del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica per aver partecipato alla Campagna del Dnepr? In quale grande catastrofe morale ha gettato il nostro popolo la leadership politica del nostro paese!
Il 9 maggio ricordiamo con semplicità e commemoriamo in silenzio le vittime di quella guerra, e pensiamo anche agli errori che abbiamo commesso e a come possiamo correggerli».


(Immagine d’apertura: bandiere per gli 80 anni della vittoria sul ponte Ustinskij a Mosca. Fonte: wikipedia)

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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