6 Gennaio 2025

Il diritto alla violenza: il punto di vista del cristiano-pellegrino

Giovanna Parravicini

Il livello massimo della violenza è quando diventa violenza di Stato, legalizzata. Lo aveva profetizzato Tolstoj, Aleksievič ne ha descritto la realizzazione. Come uscirne? Se n’è discusso al Centro culturale di Mosca.

Al centro dell’opera di Svetlana Aleksievič, acuta analista del mondo sovietico e postsovietico, troviamo l’interrogativo sull’identità dell’uomo all’interno di questo sistema: un’identità connotata dalla violenza come suo elemento intrinseco e caratterizzante, che la scrittrice scandaglia nel momento in cui «l’epoca sovietica si conclude e ciò che l’aveva alimentata passa in secondo piano, restano solo degli individui gettati sulla sponda deserta della storia nei loro giorni e notti, nei loro rituali e ferite».

Così – in un saggio recentemente uscito, Non resta che essere pellegrini. Tolstoj, Aleksievič, Badiou – la filosofa Ksenija Golubovič individua il compito che si è prefissa nei suoi romanzi-interviste la scrittrice bielorussa premio Nobel.

Prendendo spunto da questo saggio, al centro culturale «Biblioteca dello spirito» di Mosca è stata dedicata qualche giorno fa una tavola rotonda al tema della violenza e del suo superamento a cui, oltre all’autrice, hanno partecipato la poetessa Ol’ga Sedakova e Aleksej Zygmont, studioso di René Girard – un altro autore ampiamente preso in considerazione nel saggio della Golubovič.

L’opera della Aleksievič, paragonata da Ksenija Golubovič a «un medico del pronto soccorso, che corre a tutti gli indirizzi, da tutti i nominativi – che sia un maresciallo dell’Unione Sovietica, un uomo d’affari, una casalinga o un aviatore, un ex-agente del KGB o un ministro, un contadino o un dissidente – e raccoglie dati sul dolore di ciascuno. Sulle loro urla e sussurri», offre un vasto materiale documentario, una sorta di database raccolto in previsione dell’intervento di uno specialista che possa finalmente fare una diagnosi definitiva del male che devasta questo «organismo malato, questo cuore comune, lacerato da impulsi contrastanti».

Il diritto alla violenza: il punto di vista del cristiano-pellegrino

Da sin.: G. Parravicini, O. Sedakova, K. Golubovič e A. Zygmont.

Nel suo saggio, Golubovič si rivolge a più interlocutori alla ricerca di questa diagnosi e, di conseguenza, della cura. Il primo e forse principale interlocutore è Lev Tolstoj, la cui posizione intransigente e paradossale di rifiuto della violenza resta la posizione più «irrealizzata ma anche attuale, consonante al clima odierno, e la meno compromessa fra tutte». Prendiamo, ad esempio, la crudele commistione di carnefice e vittima che Aleksievič mette in luce in tanti episodi delle sue opere, parlando della società sovietica: il fatto che «gli uomini delle squadre addette alle fucilazioni tenessero sotto il letto la stessa “valigetta d’emergenza” che avevano pronta quelli che loro dovevano fucilare. E così vivevano tutti, dal soldato al generale».

La giustificazione che in seguito avrebbero addotto delatori e carnefici – rileva ancora Golubovič – era che «lo esigeva l’epoca: e con ciò si sentivano altrettanto vittime di quelli che loro torchiavano e condannavano, e sui quali eseguivano le sentenze».

Proprio questa impersonalità del male, che solleva l’individuo dalle sue responsabilità, viene da Tolstoj anticipata ed espressa in forme «ovvie», quotidiane

(il generale che un’ora dopo aver danzato e conversato amabilmente a un ballo non esita a ordinare la fucilazione di un soldato resosi colpevole di un’infrazione), ed esplicitata su scala universale quando lo scrittore rimprovera alla società la sua ipocrisia, accusandola «non di violare di quando in quando i divieti della morale, ma di introdurre la violazione dei divieti della morale come norma della vita sociale». In tal modo – rileva Golubovič, «vengono a crearsi due mondi: il mondo di Dio, in cui esistono tabù, divieti, cose ammissibili e cose inammissibili, e il mondo “odierno” che ne crea un doppione, e che pur asserendo di fondarsi sugli stessi principi in effetti li distrugge, e accetta al proprio interno ciò che in realtà è vietato. Cioè, introduce la violazione del divieto come norma del diritto».

Mettendo sotto accusa la guerra, la pena di morte, il carcere, la proprietà privata, Tolstoj evidenzia «il carattere statale e giuridico assunto dalla violenza». Alla richiesta inascoltata di Tolstoj – «eliminate il diritto alla violenza» – nel XX secolo farà seguito la legalizzazione statale e giuridica della violenza che creerà i campi di sterminio e le camere a gas, e in base alla quale Eichmann potrà documentare di aver commesso legittimamente gli orrori di cui era stato «legalmente» incaricato…

Il diritto alla violenza: il punto di vista del cristiano-pellegrino

Il volume di K. Golubovič.

Come opporsi a questo tremendo «diritto alla violenza», che oggi sembra trionfare in tante parti del mondo? Rispondendo a questi interrogativi, nel corso della serata anche Ol’ga Sedakova ha fatto riferimento a Tolstoj, citando alcune pagine di diario da lui scritte poco prima della fuga – poche settimane prima della morte – in cui invitava i contadini del suo distretto ad accogliere nelle proprie case i «disperati vagabondi» creati dalla rivoluzione industriale, gente sradicata dalla campagna ma non ancora integrata nella civiltà urbana, che non offrivano alcuna garanzia di non rubare o commettere violenze presso i propri ospiti. Come troviamo scritto nel saggio della Golubovič, in riferimento alla dottrina della non-violenza tolstoiana: «È una dottrina che ci fa paura proprio perché in situazioni di violenza ti si rivolta contro, tu non devi usare la violenza in risposta né chiamare qualcuno in soccorso. E se ti uccideranno, ti deruberanno, ti faranno violenza?». È la figura dell’agnello immolato, della vittima sacrificale, a cui richiama anche una poesia della stessa Sedakova:

E chiunque ti chiami – va’ con lui,
e lascia chiunque entrare in casa tua,
senza voler distinguere né guardare:
fanno tutti spavento,
come un tarlo nella ruota.

E se mi uccidono?
lascia che ti uccidano:
allora il farmaco daranno
stemperato nell’azzurro.

E se mi bruciano la casa?
Lascia che la brucino.
Non è tua, infatti, questa casa.
(2010)

In alcuni racconti di Tolstoj, in particolare Denaro falso – ha fatto ancora notare Ol’ga Sedakova –

è proprio l’offerta sacrificale di qualcuno ad avere il potere di invertire la spirale di violenza e di male innescata dall’inganno messo inizialmente in atto, instaurando così un nuovo movimento dettato dalla libertà e dall’amore.

Il XX secolo ha visto più di un esempio di «vittime sacrificali», come Romano Guardini avrebbe definito gli studenti del movimento di resistenza «Rosa bianca» ghigliottinati per la loro battaglia per la rinascita della società tedesca, oppure come Takashi Nagai leggerà la morte della moglie Midori e dei cristiani di Nagasaki, consumati nell’epicentro della bomba atomica. Ciò che accomuna tali vittime è la libertà con cui aderirono a un destino atroce, spaventoso – come fu per Cristo in croce – accogliendolo dalle mani del Padre come via alla salvezza.

In senso ben diverso, anche se talvolta con una certa analogia lessicale – come ha fatto notare Aleksej Zygmont – il tema della violenza nel corso della storia viene sviluppato da René Girard, il quale pone l’accento sui miti fondativi, sul nesso inscindibile che lega il sacro alla violenza e al sacrificio: nella sua visione, l’ambiguità nei confronti della vittima sacrificata è l’evento fondante su cui si basa lo sviluppo della società e della religione, una logica arcaica del sacrificio che viene trascesa solo con il cristianesimo, in cui Cristo assume il ruolo di «capro espiatorio». La logica arcaica sacrificale è tuttavia superata da Girard anche nel caso della poesia, facendo notare come, ad esempio nell’Edipo di Sofocle, «i poeti, a differenza di oratori, giuristi e politici, facciano intuire che è avvenuto qualcosa di cui tutti portano la responsabilità, e non solo colui al quale è stata imputata. E questi è colpevole, com’è colpevole ciascuno di noi». Non possiamo incolpare i tempi o le circostanze, bisogna passare dal piano del collettivo a quello della persona. Lo stesso ruolo hanno assunto, in Unione Sovietica, poeti e prosatori, che evocando figure vive (ad esempio, l’Amleto del Dottor Živago come emblema di una catastrofe planetaria) hanno strappato la violenza all’anonimato di cui si ammanta, quando si fa in modo che «di questa violenza non si possa incolpare nessuno, la si possa solo sacralizzare e chiamare, ad esempio, “obiettiva necessità storica”».

Ritornando alla Aleksievič, nei suoi personaggi «colpisce proprio l’immobilità. Sono inchiodati al loro posto. Non alla Russia, alla patria, alla lingua russa, come potrebbe sembrare, ma al trauma di una determinata realtà», che Golubovič identifica con il «trauma degli anni ’90, dell’“umiliazione” patita dai sovietici alla fine dell’URSS. Quando si sentirono abbandonati. Lasciati “sul campo”». Al contrario, il cristiano è per definizione un pellegrino, che non si distingue né si eleva particolarmente al di sopra degli uomini del suo tempo, vive la loro stessa vita ma – fa notare la Golubovič ricorrendo a un apologo dell’ultimo Tolstoj – vive nel Regno di Dio che è «dentro di noi»:

«Due pellegrini si misero in cammino per Gerusalemme. Uno fece tutta la strada e giunse realmente a Gerusalemme. L’altro invece si allontanò di poco da casa: c’era da aiutare ora l’uno ora l’altro. A Gerusalemme non ci arrivò, ma l’altro pellegrino lo vide lì presente durante la liturgia». La dimensione del Regno è la vera patria interiore, il segno di un’appartenenza vissuta e di un’autentica speranza.


(Immagine d’apertura: L.O. Pasternak, illustrazione per Guerra e pace, wikipedia)

Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

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