17 Agosto 2024

Arte sotto un cielo quasi libero

Delfina Boero

Sotto «l’insolito sole» dell’Uzbekistan è nato un filone artistico che si pone tra Avanguardia, orientalismo, pittura medievale e miniature persiane. In mostra in Italia.

Arte sotto un cielo quasi liberoIl volume Uzbekistan:  nel deserto, a cura di Giuseppe Barbieri e Silvia Burini (Electa, 2024, pp. 264, € 48,00), riccamente illustrato e frutto di un lavoro lungo e competente, contiene il catalogo di due esposizioni quasi parallele: La luce e il colore (Firenze, Palazzo Pitti, 16 aprile-30 giugno 2024) e La forma e il simbolo (Venezia, Ca’ Foscari, 17 aprile-29 settembre 2024). Non è un caso che, come cornice di questo evento, siano state scelte due fra le principali città d’arte italiane.

La partecipazione attiva di enti ufficiali uzbeki quali la Uzbekistan Art and Culture Development Foundation, testimonia la volontà della repubblica centroasiatica di aprirsi a un rapporto più intenso con l’Occidente, anche attraverso scambi culturali e la divulgazione a un pubblico più ampio delle sue bellezze naturali e artistiche, scegliendo una vetrina prestigiosa.

Le mostre presentano per la prima volta al pubblico europeo due straordinarie collezioni di arte dell’Avanguardia. Le opere esposte, eseguite fra il 1910 e il 1940, provengono da due musei: il Museo statale delle arti del Karakalpakstan di Nukus, intitolato a I. Savickij, suo geniale fondatore, e il Museo statale delle arti dell’Uzbekistan a Taškent, allestito dopo la rivoluzione del ‘17 nella residenza confiscata al granduca Nikolaj Romanov, la cui raccolta di arte russa e occidentale ne formò il primo nucleo.

Le due sezioni della mostra presentano un fenomeno artistico unico, nato nel Turkestan (nome dato in epoca zarista ai territori dell’Asia centrale conquistati dall’impero russo) negli anni ’20, che ebbe i suoi centri a Taškent e a Samarcanda e unì concezioni artistiche diverse, tradizioni orientali e occidentali, arte classica e contemporanea, per creare «la rappresentazione di un mondo incantato, reale e immaginario allo stesso tempo», come scrive Zel’fira Tregulova in uno dei saggi introduttivi su quest’arte per noi tutta da scoprire.

Le due collezioni, in Italia per la prima volta, si formarono nell’ambito di un programma realizzato dall’allora giovane governo sovietico, per creare i primi musei di arte contemporanea in URSS. Numerose opere di grandi artisti dell’Avanguardia quali Kandinskij, Popova, Ekster, Fal’k e altri, furono trasferite in Asia Centrale negli anni ‘20, e riuscirono così a sopravvivere alle successive distruzioni, ordinate in nome del realismo socialista staliniano degli anni ‘30, che detestava l’arte dell’Avanguardia.

Le raccolte suscitarono viva impressione fra gli studenti di pittura e gli artisti che vivevano o si erano trasferiti in quelle regioni periferiche, fino a dare vita alla cosiddetta «Avanguardia del Turkestan», un filone artistico che fonde le tradizioni dell’Avanguardia con l’orientalismo di Gauguin, la pittura medievale italiana e russa, la raffinatezza delle miniature persiane e la spiritualità delle icone.

Eppure, le opere esposte sono molto più di tutto questo: riflettono su temi universali come il corso della vita, il lavoro della terra e l’esistenza della terra stessa, sono ricche di vibrazioni cromatiche e infiniti giochi di luce e ombra. Non c’è niente di etnografico nell’approccio ai soggetti locali: gli stessi artisti divennero parte di questo mondo, basti pensare ad Aleksandr Nikolaev, in arte Usto Mumin, cioè «maestro credente, sottomesso», che arrivò a convertirsi all’islam nella sua corrente sufi e per questo trascorse lunghi anni nei campi di prigionia dell’URSS.

Elementi-chiave di questo universo, scoperto da artisti sovietici sia russi che di altre etnie, erano il colore e la luce. Savickij scrisse:

«Il colore e la luce in cui Samarcanda e l’Asia Centrale sono immerse, rappresentano la scuola migliore per un pittore che si sforza di cogliere la massima intensità del colore tanto nella luce quanto nell’ombra».

Per molti artisti che avevano alle spalle un passato di difficoltà e di stenti, il Turkestan rappresentò un approdo sicuro, dove godere ancora di una certa libertà artistica, almeno fino alla metà degli anni ’30. Essi, infatti, riuscirono a dissimulare la loro affinità con le idee dell’Avanguardia o con l’arte di Matisse attraverso i riferimenti alle tradizioni artigianali locali e alle decorazioni dei tessuti o dei tappeti.

Arte sotto un cielo quasi libero

Igor’ Savickij (1915-1984). (facebook)

Molti saggi del catalogo, che introducono ai vari aspetti di questo fenomeno artistico, danno ampio spazio alla biografia e all’instancabile attività di Igor’ Savickij (1915-1984), straordinaria figura di artista, archeologo, fotografo e collezionista. Nel 1942, ancora studente dell’Istituto d’arte di Mosca, fu evacuato a Samarcanda a causa della guerra, e restò affascinato dall’architettura medievale e «dall’insolito sole, dai colori meravigliosi». Qui frequentò le lezioni di Fal’k, Istomin e Ul’janov, anch’essi evacuati da Mosca.

Tornato nella capitale, Savickij non perse la passione per l’Oriente, e nel 1950 si recò in Corasmia, una regione dell’Uzbekistan presso il lago d’Aral, per lavorare come disegnatore e fotografo di un’importante spedizione archeologica. Qui scoprì i colori del deserto e il fascino della cultura e dell’artigianato della regione, che influenzarono profondamente il suo modo di dipingere. Cominciò a collezionare reperti archeologici ed esempi di arte applicata (tessuti, tappeti, gioielli e oggetti in legno) – per il museo che sognava di aprire in questa terra remota.

Nel 1959 la sua raccolta fu ufficialmente riconosciuta come parte del patrimonio della locale Accademia delle Scienze. Savickij voleva che questo materiale fosse esposto al pubblico e diventasse fonte di ispirazione per gli artisti locali che stavano già perdendo le loro radici nazionali sotto la spinta della «globalizzazione» sovietica. La sua idea era di creare uno spazio in cui i reperti archeologici potessero essere esposti a fianco dei migliori esempi di artigianato tradizionale, e nel 1966 aprì un museo che non solo conservasse manufatti unici destinati a scomparire, ma che fosse anche un importante punto di riferimento per gli artisti. Per questo si recò a Taškent, Samarcanda, Mosca e Leningrado per convincere i pittori anziani e i loro familiari a donargli le opere rimaste invendute nei loro atelier.

Riuscì a ottenere finanziamenti dalle autorità locali e dal Ministero della cultura dell’URSS, e fu autorizzato a prendere dagli archivi statali le opere d’arte non richieste dai suoi colleghi di Mosca o Leningrado. A Nukus creò così un museo sintetico, un vero e proprio «Louvre del deserto», in cui convivono creazioni artistiche di antiche culture, tradizioni artigianali locali, arte moderna, dipinti della cosiddetta Avanguardia del Turkestan, e altre opere d’arte di alta qualità, che avrebbero rischiato di essere dimenticate o distrutte.

Visitare la mostra o anche solo sfogliarne il catalogo, è un’ulteriore occasione per scoprire che il desiderio di creare liberamente e il fascino per mondi diversi dal proprio sono caratteristiche dell’essere umano a ogni latitudine, che affiorano nei tempi e nei luoghi più impensati, dando vita a esperienze sempre nuove.  Alla base di ogni vera fecondità stanno la comunicazione e lo scambio spontaneo fra popoli, tradizioni e singole persone. Una strada non facile, come vediamo anche dalle vicende alterne e spesso contraddittorie di questa esperienza artistica e dei suoi protagonisti, ma sicuramente avventurosa e appassionante.


(immagine d’apertura: O. Tatevosjan, La tenda della frutta, 1928, Museo Savickij Karakalpakstan – facebook)

Delfina Boero

È ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana. Fra i suoi interessi, la storia e la cultura della Repubblica Democratica Tedesca, la vita religiosa e culturale in URSS, nella Federazione Russa e nelle ex Repubbliche sovietiche.

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