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26 Ottobre 2022
Siamo tornati dove padre Romano ha iniziato
Il 12 ottobre si sono aperte le celebrazioni per il centenario dalla nascita di padre Romano Scalfi con una liturgia nella chiesa del Collegio Russicum, là dove il padre aveva imparato a conoscere e ad amare la Russia di Cristo.
Il 12 ottobre scorso padre Romano Scalfi avrebbe compiuto novantanove anni. Siamo perciò entrati nel centesimo anno dalla sua nascita, ricorrenza privilegiata per tornare alla sua figura con spirito di gratitudine e con il desiderio di raccogliere la sua eredità, imparando ad amare Cristo, la chiesa e la Russia.
L’occasione per aprire le celebrazioni del centenario, con una Divina Liturgia celebrata nella Chiesa del collegio Russicum di Roma, è stata offerta dall’Udienza concessa da papa Francesco agli aderenti del movimento «Comunione e Liberazione» lo scorso 15 ottobre. Il legame fra don Giussani, padre Scalfi e il Russicum era sempre stato molto forte, sin dal 1957, nel primo incontro dei due sacerdoti; come ricordava padre Romano: «“Mi scusi, reverendo,” dico a don Giussani, “sono padre Romano: vengo dal Russicum”. Mi ha subito abbracciato e ha detto: “Possiamo collaborare!”. Così è nata una grande amicizia». Padre Romano stesso, nell’omelia pronunciata in occasione del suo novantesimo compleanno, aveva poi ricordato che l’intuizione fondamentale di Russia Cristiana gli si era chiarita proprio in un dialogo con don Giussani: «Io mi consideravo uno specialista, ma don Giussani mi diceva: “Tu credi di essere uno specialista di ecumenismo, ma fai pratica di ecumenismo?”. “Cosa vuol dire fare pratica di ecumenismo – chiedevo io – non capisco!”. “Certo, cos’è l’ecumenismo? È l’unione della persona e della società in Cristo. Che esperienza fai di questo? Quanto sei unito tu con Cristo? Che comunità hai, in cui tu possa sperimentare l’unione in nome di Cristo?”. Questo mi ha illuminato, così è nata Russia Cristiana».
E tutto era nato ancora prima proprio dal collegio Russicum, perchè da lì era scaturita per padre Romano l’intuizione di dedicare la propria vita di sacerdote alla Russia. Infatti, quando padre Scalfi era ancora seminarista, alcuni gesuiti del Russicum avevano fatto visita al seminario di Trento e vi avevano celebrato la Divina Liturgia bizantina. Colpito dalla bellezza del rito, il giovane Romano Scalfi aveva intuito quale dovesse essere il proprio ambito missionario e, al contempo, il luogo da cui attingere le energie per l’evangelizzazione: la Russia cristiana, la Russia rimasta custode di un enorme tesoro spirituale dinanzi al quale non si poteva che rimanere affascinati. Successivamente il Russicum (che era stato eretto nel 1929 da papa Pio XI per preparare dei sacerdoti alla missione in Russia) divenne l’ambito in cui questa intuizione cominciò a svilupparsi e si formò concretamente.
All’udienza in piazza San Pietro si è dunque naturalmente aggiunta la visita al collegio Russicum e alla chiesa di sant’Antonio Abate, nella quale padre Scalfi aveva imparato a celebrare in rito bizantino. Ad accogliere i membri della fraternità di Russia Cristiana è stato, con grande cordialità, padre Germano Marani, rettore della chiesa del collegio. Padre Scalfi era arrivato al Russicum il 4 ottobre del 1951: più di settant’anni dopo, il 16 ottobre 2022, una piccola folla di suoi figli spirituali è tornata nel medesimo luogo per rendere grazie, attraverso l’Eucarestia domenicale, per tutti i doni ricevuti e per affidare alla Provvidenza il futuro cammino dell’opera. La Divina Liturgia è stata presieduta da don Francesco Braschi, attuale presidente dell’Associazione Russia Cristiana; proponiamo di seguito la trascrizione dell’omelia.
Omelia nella chiesa di Sant’Antonio abate, presso il Collegio Russicum
È un’occasione di gioia particolare quella che oggi ci porta a condividere questa celebrazione della Divina Liturgia. Oggi celebriamo i Santi Padri del VII Concilio Ecumenico tenuto a Nicea, concilio che condannò gli iconoclasti e riaffermò la verità dell’Incarnazione del nostro Signore Gesù Cristo. Ma insieme si festeggia oggi anche san Longino, il centurione che con la sua lancia squarciò il costato del Signore. Inoltre – ed è la ragione per cui siamo qui in tanti, che normalmente non frequentiamo questa chiesa di sant’Antonio Abate – Russia Cristiana apre oggi il centenario della nascita di padre Romano Scalfi, di cui pochi giorni fa abbiamo celebrato il 99esimo compleanno e che di Russia Cristiana è stato il fondatore; egli proprio in questo collegio ha conosciuto, imparato, amato, fatto diventare la ragione della sua vita e il modo in cui il Signore Gesù gli chiedeva di vivere la sua vocazione di sacerdote attraverso la fede, la spiritualità, la liturgia della chiesa russa. Questo è un motivo di grande gioia e consolazione per noi oggi. Padre Romano volle chiamare la sua fondazione Russia Cristiana, con un nome che non corrispondeva affatto nel 1957 a quella che era la denominazione normale dello Stato che all’epoca dominava sulla Russia e cioè l’Unione Sovietica. Ma nemmeno, padre Romano, scelse nomi come «Santa Russia», che potrebbero oggi evocare altri scenari.
Russia Cristiana, semplicemente. La Russia, che si riconosce come terra che è stata resa feconda dall’incontro con l’annuncio di Cristo. Quella terra che ha contribuito e che contribuisce comunque a far risplendere il volto di Cristo, come ogni altra terra cristiana. Ma soprattutto a quell’epoca padre Romano voleva ridire a tutti la verità di un fatto che niente, che nessun avvenimento, che nessuna scelta politica può cancellare e cioè il fatto che una terra raggiunta dalla voce di Cristo, una terra raggiunta dalla Sua parola, è una terra a cui viene offerto l’unico possibile, vero, cammino per la salvezza. Ed è questo che oggi siamo qui a riconoscere: ciascuno di noi soltanto attraverso Cristo può trovare la sua salvezza, e questo avviene nel modo in cui Cristo stesso ce l’ha detto, parlando attraverso la proclamazione del Vangelo fatta poco fa dal diacono: «Padre, glorifica il Figlio Tuo, perché il Figlio glorifichi Te, poiché Egli ha ricevuto da Te il potere sopra ogni essere umano, perché egli, il Tuo figlio, dia la vita eterna a tutti coloro che Tu gli hai dato. E la vita eterna è che conoscano Te, l’unico vero Dio e Colui che hai mandato, Gesù Cristo».
Sappiamo bene che non si tratta mai di una conoscenza puramente intellettuale: la conoscenza di Cristo è una conoscenza che amiamo definire umano-divina, una conoscenza che avviene attraverso la Sua benedetta e santissima umanità e che attraverso quella ci porta a riconoscere e a essere trasformati, divinizzati dalla sua stessa divinità. Ma, appunto, come avviene questa conoscenza, questa comunione, questa trasmissione di salvezza? Avviene nel modo che l’Epistola ci ha ricordato, attraverso l’esperienza di Paolo: senza nessun vanto, senza nessuna pretesa di esperienze strane, particolari, fossero anche esperienze mistiche, ma attraverso l’esperienza della nostra debolezza. Paolo fece questa esperienza: non sappiamo esattamente di che cosa si trattasse, forse una malattia, forse un tratto del suo carattere che lo affliggeva, forse un peccato ricorrente dal quale non riusciva a liberarsi; non lo sappiamo. Ma sappiamo molto bene che era qualcosa di molto simile a quello che tutti noi sperimentiamo quando siamo in difficoltà; e anche Paolo ha pregato innanzitutto perché il Signore lo liberasse da quel male, pensando: «Questo non mi permette di vivere bene la vocazione di discepolo, questo non mi permette di fare tutto il bene che dovrei, questo non mi permette di avere la mente e il cuore liberi per dedicarmi soltanto al Vangelo» e via così dicendo.
Tante cose che a volte anche noi pensiamo: «Signore, ti amerei di più se questa condizione fosse diversa; Signore, pregherei di più se il mio tempo fosse diverso; Signore, ti amerei di più se la mia situazione familiare, lavorativa, fosse diversa…».
Ma Paolo si è sentito rispondere: «Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza». Che cosa significa questa frase? Due cose fondamentali. La prima, che la potenza di Dio mai, in nessun caso, vuole essere guardata come una potenza che per affermarsi schiaccia, che per affermarsi vince schiacciando il nemico. L’unico nemico che verrà «posto sotto i piedi» sarà la morte e il diavolo, ci dice sempre san Paolo. Ma la potenza di Dio che si manifesta nella nostra debolezza è esattamente la potenza che si china, che risolleva, che asciuga le lacrime, che abbraccia, che dona una novità che uno non si aspetta, che sorprende perché ti fa vedere amato e voluto bene più di quanto tu stesso ti ami e ti vuoi bene, quando ti guardi nella realtà di quello che sei. Solo questa è la modalità in cui pienamente si manifesta la potenza di Dio. E capiamo allora perché ci è così difficile accettare questo: perché ci chiede di amare la nostra debolezza, non di giustificarla e nemmeno di prenderla come motivo di vanto, se non nel senso che diceva san Paolo, ma perché questa nostra debolezza è il luogo attraverso il quale veniamo ricondotti alla verità di quello che siamo.
«Nulla saremmo, Signore, se Tu non ci avessi presi, se tu non ci avessi abbracciati, se Tu non avessi donato vita a quella nostra vita che senza di Te era già l’esperienza della morte».
Ecco quello intorno a cui ruota tutto il messaggio, tutta la vita, tutti i doni della fede cristiana.
Anche la domenica della vittoria sull’iconoclastia che celebriamo ci dice il fine delle immagini di Cristo e dei Santi: mostrarci appunto l’umanità, che però è capace di accogliere e manifestare la pienezza della divinità e che dunque diventa il principio di trasfigurazione di tutta la realtà in cui viviamo. Oggi avremmo tanti motivi – molti ne abbiamo anche ricordati prima, nel Grande Ingresso, con le diverse intercessioni che abbiamo ascoltato – abbiamo molti motivi per vedere situazioni, luoghi, accadimenti, violenze, guerre, che sono esattamente l’opposto di un mondo capace di accogliere la «pace che viene dall’alto», ciò per cui abbiamo pregato all’inizio di questa Divina Liturgia. Eppure questo mondo viene continuamente visitato e abitato da Cristo attraverso quello che oggi più da vicino ci mette in contatto con la sua umanità, ovvero il Suo purissimo corpo e il Suo preziosissimo sangue, che ci vengono donati nell’Eucarestia.
Uno solo allora sia il nostro desiderio, come è stato il desiderio che ha animato tutta la vita di padre Romano Scalfi: quello di lasciarci conquistare da Cristo, di fare della conoscenza di Lui quanto di più necessario ci appare nella nostra vita e nello stesso tempo, di riconoscere continuamente che questo conoscere Lui, che questo riconoscere la Sua presenza, mai può andare disgiunto dalla preghiera per il perdono.
«Signore prendimi così come sono ma fammi come Tu mi vuoi», pregava continuamente padre Romano.
E questo è anche il motivo per cui ci accostiamo all’Eucarestia: «Signore, incontra il grido che sono, riempi la mia debolezza e fa che la Tua stessa vita, donata nell’Eucarestia, diventi la mia vita e cominci già ora quella divinizzazione a cui Tu mi chiami, che costituisce l’essenza della vita di ogni tuo discepolo».
Questo chiediamo, ciascuno per sé e gli uni per gli altri, affidando tutta la nostra vita a Cristo Dio.
Roma, 16 ottobre 2022
Paolo Polesana
Dopo la laurea all’università statale di Milano, ha conseguito il dottorato in fisica a Como e ha lavorato nei laboratori laser dell’università di Vilnius (Lituania). Ora è sacerdote diocesano a Bergamo. Da diversi anni collabora con l’Associazione Russia Cristiana
LEGGI TUTTI GLI ARTICOLIFrancesco Braschi
Sacerdote, dottore in Teologia e Scienze Patristiche, dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano e direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana. È consultore della Congregazione del Rito ambrosiano e docente a contratto di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
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