
14 Giugno 2025
Pietroburgo, la città degli «eterni torbidi»
Una città, Pietroburgo, con un destino speciale. Nata dal sogno volontaristico di un imperatore, porta in sé le ombre originarie ma anche le luci di un’umanità resiliente, da Puškin a Brodskij, alla generazione underground degli anni ’70. Ne parla l’ultimo libro di Anna Zafesova.
Pietroburgo «finestra sull’Europa», «Venezia del Nord», «Nuova Amsterdam», «Palmira boreale» e in più Pietrogrado, poi Leningrado, poi di nuovo Pietroburgo, questa città dai mille nomi ha sempre avuto un significato incisivo, per non dire fatale, nella storia russa.
L’ultimo libro di Anna Zafesova, come dice il titolo stesso, Pietroburgo. Dagli assassini degli Zar al cuoco di Putin (Paesi Edizioni, 2025) coglie una chiave importante se non decisiva dell’anima di questa città, che è tutta tesa verso l’Occidente e verso le sue virtù – altrimenti perché volerlo imitare persino negli appellativi, questo Occidente? – e nello stesso tempo è incapace di imitarlo, perché il cuore dell’Occidente (amato, odiato) è la libertà; e la libertà, che è l’irripetibilità di ogni singolo uomo, proprio in quanto tale non può essere imitata, cioè ripetuta, tanto più in un paese che, mentre diventa «un consumatore insaziabile di tutto ciò che è straniero, imitando qualunque usanza forestiera», subito si contraddice punendo «con la pena di morte un viaggio all’estero non autorizzato dallo zar».
Come documenta bene l’autrice, questa contraddizione tra l’attrazione per l’Occidente e la sua repulsione fu ed è un vizio che ebbe manifestazioni ripetute, concatenate e imbarazzanti, al punto che in certi periodi e in certi ambienti parlare russo veniva considerato «poco elegante», allo stesso modo in cui in tempi recenti «Euro» è diventato sinonimo di migliore, più bello, più ricco, più civile», mentre, come trovandosi di fronte a un trauma non sanato, c’è una nuova vecchia Russia (quella putiniana) che vuole distruggere quella stessa Europa che molti continuano a sognare e le cui origini nascono proprio «dalla lotta per la libertà e i diritti dei “vili”» che invece sono tanto disprezzati dai sostenitori del nuovo regime.
Il libro ci porta dunque al cuore del destino che qui è in gioco per tutto il paese e per il mondo: qual è l’identità russa e cosa ne resta, ammesso che ne sia mai esistita una?
Città imperiale, «ingiusta fin dalla sua nascita», perché nata agli inizi del Settecento da «una guerra di conquista e dal capriccio visionario di un sovrano», Pietroburgo non si libererà mai da questa sua origine inquietante, cioè, per un verso, dalla convinzione che la guerra (in questo caso la Guerra del nord) offra la possibilità di fondare una vita nuova e, per un altro verso, dalla confusione del capriccio con la libertà, che è, invece, o dovrebbe essere, il cuore della vita e si distingue radicalmente dall’arbitrio.

Il cavaliere di bronzo, monumento equestre a Pietro il Grande (1682-1725), situato in piazza del Senato, opera di E.M. Falconet. (pixabay)
Si approfondisce così la contraddizione costitutiva di Pietroburgo perché, da una parte, «Pietro è il copiatore per eccellenza, spinto dalla rivelazione dell’irrimediabile arretratezza russa rispetto alla evidente superiorità europea, e animato dalla profonda convinzione tipica degli autodidatti che basti copiare e applicare lo stesso metodo per ottenere lo stesso risultato» ma, dall’altra parte, proprio questa pretesa ingenua e illusoria, produce una sorta di «cinesata», «che vorrebbe provare qualcosa all’Europa e che grida Asia» o, ancora, per usare un’espressione di Casanova, qualcosa che sembra «una città europea abitata da una colonia di selvaggi», per non arrivare alla stroncatura non meno feroce di Griboedov, un autore russo questa volta, che parla di «una imitazione vacua, cieca, da schiavi».
E non si tratta soltanto di controversie tra intellettuali, le classiche discussioni ottocentesche tra slavofili e occidentalisti, che qualche volta erano e continuano ad essere oziose chiacchiere da salotto, ma di qualcosa di più profondo, un «rapporto di attrazione-respingimento» che, se da una parte spinge tanti esuli politici in Occidente, dall’altra genera il livore di Putin per un «un Occidente che “non ci ha mai trattati veramente da pari”, “ci ha messi in un angolo”, “è stato presuntuoso a impartirci lezioni”».
E dal livore nasce l’aggressione e il rifiuto di questo stesso Occidente, di cui si vorrebbe vanamente far parte; e poi, per rimediare all’insuccesso, ci si rifugia nella ricerca di «radici alternative sempre più mitologiche e lontane», un Oriente soltanto sognato. E in questo passaggio da una realtà non soddisfacente, ma presente, a un’alternativa ideale, ma solo auspicata, spesso si realizza una semplice fuga dal reale; e là dove il reale non si piega alla volontà del potente, lo si costringe ad adeguarsi.
In questo senso, il destino futuro sembra preannunciarsi sin dagli inizi e, nel paese che poi sarà segnato dall’Arcipelago, appare una sorta di anticipazione del GULag, materializzata dolorosamente «già dalla decisione di Pietro di iniziare la sua capitale da una fortezza-prigione, e di costruirla in tempi record con il lavoro di migliaia di forzati». È per Pietroburgo un destino tragico che continuerà poi a segnare la sua parte sventurata con le Kresty, «“le Croci”, una delle prigioni più terribili della Russia» – entrate anche nella storia della letteratura con il Requiem di Anna Achmatova – o con le fosse comuni che circondano la città, nelle quali è probabilmente sepolto il grande teologo e filosofo Pavel Florenskij (1882-1937).
Tra questi Occidenti e Orienti, sognati o reali, c’è insomma, costante, nella storia di Pietroburgo, una «dissociazione cognitiva e politica», evidente persino nel fatto che Piter (come viene affettuosamente chiamata da sempre) ancora oggi è il capoluogo della regione di Leningrado; nata infatti come Pietroburgo per immortalare il nome del suo fondatore, la città era poi diventata Pietrogrado nel 1914, ai tempi della Prima guerra mondiale (per sostituire all’odiato suffisso germanico burg il più rassicurante russo grad) ed era poi stata ribattezzata Leningrado nel 1924 per cantare le lodi del padre della rivoluzione, salvo poi tornare a essere Pietroburgo nel 1991, con la conclusione dell’avventura sovietica.
La regione aveva invece conservato il vecchio nome rivoluzionario: come dire che nessuno, né città né regione, sa e forse ha mai saputo cosa sia; destino che oggi Putin vorrebbe farle condividere con Volgograd, la vecchia Stalingrado, il cui nome i suoi abitanti avevano deciso di cambiare e nella quale adesso, per volere dello «storico in capo», almeno l’aeroporto è tornato a essere dedicato a Stalin.
Ed è questo, appunto, uno dei grandi problemi,
forse il problema fondamentale della Russia di oggi: non sa cosa sia e non ha più nessuno che glielo dica; e chi glielo dice viene ucciso, perché i potenti possano continuare a credere di poter «plasmare la realtà sottomettendola alla potenza della loro idea», come era stato agli inizi.
E anche in questo si palesa e si esaspera la contraddizione di questa città: nel 1764, in un paese che non aveva ancora abolito la schiavitù, anzi quasi un secolo esatto prima della sua abolizione, era già stata fondata la «prima scuola statale per le donne aperta in Europa», l’Istituto delle fanciulle nobili Smol’nyj, grande successo di una borghesia che era pur viva ed esisteva nonostante tutto prima della rivoluzione e sapeva anche fare cose di non poco conto; e però proprio lì, in quella che nel frattempo era diventata Pietrogrado, aveva vinto il colpo di Stato bolscevico che aveva cancellato tanto la borghesia quanto il sogno della rivoluzione; e subito dopo, contraddizione su contraddizione, Lenin aveva trasferito la capitale a Mosca perché aveva capito che «nella capitale imperiale, i bolscevichi sarebbero apparsi sempre degli impostori, degli squatter in case occupate»; e questo aveva poi rovinato anche Mosca, che aveva ripreso potere e forza ma aveva perso anche il suo vecchio volto, forse disordinato ma vivo, a differenza di Pietroburgo, così rettilinea e, a tratti monotona (nonostante gli sfarzi occidentali), ma che aveva saputo generare dei «torbidi eterni», perché quello che era stato fondato da un sovrano che si sarebbe voluto europeo si era poi rivelato un sistema nel quale, come sottolineava Ključevskij (non un occidentale russofobo ma un grande storico russo), «ogni ascesa al trono era stata preceduta da torbidi a corte, da un intrigo segreto oppure da un colpo statale esplicito», così che «nei primi 37 anni dopo la morte del fondatore dell’impero, sul suo trono si avvicendano sette monarchi e una dozzina di reggenti e favoriti, alcuni dei quali richiederanno dei minigolpe personali per venire rovesciati».
E quando sarebbero finite le congiure sarebbero iniziati gli attentati, così frequenti che «per buona metà del diciannovesimo [secolo] gli zar e i loro collaboratori vivranno nel terrore perenne di un attentato dinamitardo» e in questa serie infinita di sconvolgimenti «non saranno molti i Romanov che moriranno sereni nel loro letto».
E poi, nuova tragedia dopo la tragedia, venne la guerra vittoriosa contro il nazismo, ma a un prezzo enorme, così che Pietroburgo divenne la «città-martire degli eccidi staliniani e dell’assedio nazista, 900 giorni di fame, gelo e bombe», con una resistenza eroica all’invasore ma condotta in maniera tale che (come mostrano gli storici contemporanei) la vittoria non avvenne grazie a Stalin, ma nonostante Stalin, con i suoi errori e il suo radicale disprezzo della vita umana e il milione di vittime che in maniera diversa si sarebbero potute risparmiare.
E poi la città non è più rinata dopo la caduta del regime perché, come precisa Anna Zafesova, «dal sistema più ideologico e statalista dell’URSS, quello del KGB, Putin esporta non troppo paradossalmente un modus operandi mafioso, che calza a pennello alla città postcomunista che riprende il suo vecchio nome, ma appare totalmente impreparata a vivere in un mondo nuovo». Ed assistiamo così «alla degenerazione di Pietroburgo, da capitale imperiale intellettuale a città di boss mafiosi e picciotti palestrati».
Oggi la città è governata da un inestricabile conglomerato di potere e denaro che «fa capo ai vari clan dei piterskye vicini al presidente russo. Pietroburgo è una città politica, nasce dalla politica, è figlia di un’aspirazione imperiale che 300 anni dopo è degenerata nella prima guerra coloniale in Europa dopo il 1945»; eppure ci inganneremmo se ci fermassimo qui e se pensassimo soltanto a un libello polemico, qualcuno dirà il solito pamphlet russofobo.

Il caffè Saigon in una foto del 1988. (wikipedia)
Simboli vivi di un’altra città
Come c’è una Russia diversa, quella di Naval’nyj ucciso perché voleva parlare della bellissima Russia del futuro e non della Russia «dei cortigiani, dei banditi e dei golpisti [Prigožin]», così c’è anche una Pietroburgo diversa, quella di Mandel’štam che non voleva morire e che diceva di avere «ancora degli indirizzi, / ai quali troverò le voci dei morti»; e, ancora prima, se c’è Pietro che aveva fatto «decapitare la sua amante», in questo libro c’è anche Puškin, il poeta russo per eccellenza, il quale, mentre sognava «sovrani che si inchinano alla protezione della legge», si rivolgeva allo zar, «ribaldo incoronato», ricordandogli che «per te e il tuo trono io ardo / d’odio crudele: alla tua perdizione / ed alla morte dei tuoi figli guardo / con gioia».
E allo stesso modo, accanto alle sedi della polizia dove venivano richiusi persino i capi e accanto alla memoria delle torture che non risparmiavano nessuno, ci sono anche i simboli di una Piter diversa, simboli non persi in un passato lontano, ma vivi in una memoria non ancora morta, qual è quella di chi ricorda, come l’autrice, il mitico caffè Saigon negli anni ‘70, quando la città era diventata un «bizzarro incubatore ufficiale di artisti alternativi (…), un tentativo di imbrigliare e addomesticare la protesta di una “generazione di spazzini e custodi”», perché, nonostante tutte le repressioni, tanti erano i dissidenti e molti di loro, prima di andare allo scontro diretto col regime, avevano scelto di fare i lavori più strani (dai guardiani notturni ai fuochisti di un locale caldaie) pur di non piegarsi alle direttive del potere e di non finire a essere condannati per parassitismo come era successo al futuro premio Nobel Brodskij.
E certo, la scelta non sarà stata la più coraggiosa, la più originale o la più efficace ma qualche risultato deve pure aver conseguito, almeno a livello della coscienza se, anni dopo, a riabilitazione postuma di Pietroburgo, qualcuno finì per coniare lo slogan «a Piter il rock lo suonano gli eroi, a Mosca i pagliacci».
Nessuno può dire oggi se questa scelta resterà chiusa nel passato o avrà ancora sviluppi nel futuro e ci saranno allora nuovi eroi. In fondo, come Anna Zafesova suggerisce per tutto il libro, Pietroburgo è la «città del sogno e dell’incubo, dove “tutto è inganno, tutto è sogno, nulla è ciò che sembra”» e il problema di Piter, come della Russia, è quello che attraversa tutto il libro: se in questa città e nel suo paese vogliamo vedere un «monumento alla “volontà senza limiti dell’autocrate che lotta con forza sovrumana contro tutte le leggi della natura”» o se, fuori da imitazioni impossibili e mitologiche, vogliamo vederla come «una città di luce e oscurità» e cerchiamo di «separare la metà della luce, per abitarci dentro».
(foto d’apertura: E. Hatskevich, pexels)
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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