
15 Aprile 2024
Sperare anche all’inferno
Varie volte Naval’nyj ha detto di essere credente, in tribunale e sui social. Dopo la sua morte, molti cristiani si chiedono come sperare in una situazione che sembra senza via d’uscita. Il portale indipendente «Meduza» ha intervistato in proposito padre Andrej Kordočkin.
Come il cristianesimo ci insegna a vivere nei momenti in cui sembra che non ci sia più speranza?
Questa, secondo me, è la cosa più importante che ci insegna il Vangelo. Perché, se ricordiamo la vita terrena di Cristo, vediamo che i discepoli e le discepole che gli erano più vicini si sono trovati in questa stessa situazione, dopo che è stato ucciso.
Non c’era più speranza, sono fuggiti impauriti e disperati. Eppure, qualcuno è rimasto: le donne che la Chiesa venera come «mirofore». Sono andate al suo sepolcro sapendo che non aveva senso, perché era chiuso da una pietra che non potevano spostare da sole.
Ciononostante, a dispetto di tutte le considerazioni razionali e logiche, ci sono andate e, grazie alla loro fede e alla loro speranza sono state, malgrado tutto, le prime testimoni della resurrezione di Cristo.
Capisco che il fatto stesso e le circostanze della resurrezione di Cristo devono dare speranza ai credenti. Ma mi sembra quasi inevitabile urlare di disperazione: loro hanno atteso solo tre giorni, ma a noi quanto toccherà aspettare? Tanto più che non è cominciato tutto con la morte di Aleksej…
San Paolo dice: «La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude» (Rm 5,3-5). Quando siamo molto giovani, adolescenti, ragazzi, studenti, ci sembra che la vita sia non eterna ma quasi.
Poi cresciamo e capiamo che ormai siamo a metà strada, che da qualche parte c’è già una generazione di persone più giovane di noi, che ogni anno passa più in fretta di quello precedente. Sentiamo che il tempo sta accelerando.
Il cantautore russo Mike Naumenko cantava: «Ti aspetterò tutta la vita, la vita non è la cosa che dura più a lungo». È una canzone su una persona, sull’incontro con una persona. Ma penso si possa dire lo stesso anche dell’incontro con Dio. Secondo me la sensazione che il tempo stia accelerando deve costringerci a guardare la speranza cristiana in un altro modo.
La disperazione, si sa, è un peccato. Se si prova questo sentimento, ci si deve pentire?
Lei vuole aggiungere tormento a tormento: dopo esserci disperati, dobbiamo anche sentirci in colpa? Non penso che serva a molto. Secondo me, a chi ora è disperato non bisogna dire che sta peccando, ma tendergli la mano e dirgli che non è solo. E cercare di stare insieme, perché in questo momento per noi la solidarietà è certamente importantissima.

I. Christič, illustrazione per le attività di Memorial. (Instagram)
Lei ha cominciato ricordandoci un episodio del Vangelo. Su alcuni social ho visto che il percorso di Naval’nyj è stato paragonato alla vita terrena e alla morte di Cristo. Non è un sacrilegio?
Non penso. Mi sembra che il suo sia un caso particolare rispetto a quelli di altre vittime delle repressioni sia del passato che del presente. Perché molti di coloro che hanno sofferto in epoca sovietica e che soffrono oggi, sono vittime di circostanze in cui non avrebbero voluto trovarsi. La particolarità della situazione di Naval’nyj sta nel fatto che, quando è tornato in Russia, ovviamente non poteva non aspettarsi quello che gli è successo.
Non equiparerei la sua morte al martirio cristiano, perché lui non è morto per la fede in Cristo, ma sappiamo benissimo che era ortodosso. Lo sappiamo dalle sue parole durante un processo, quando ha citato il Discorso della montagna. Lo sappiamo dai messaggi che mandava dalla cella, quando lo hanno messo insieme a un uomo che puzzava terribilmente, e lui si è chiesto cosa avrebbe fatto Cristo al suo posto.
Tuttavia, la fede si manifesta non solo nelle parole di una persona, ma anche nel suo comportamento. Lui non si era incattivito, non si è mai sentito una vittima, neanche nella situazione più disperata. Non era uno di quei politici per cui l’ortodossia è un’ideologia o un rituale.
Ripeto, non avrei tanta fretta di farne un martire cristiano. Ma penso non sia affatto un sacrilegio dire che era un cristiano che ha accettato la morte con dignità, e che inoltre sotto molti aspetti questa è stata una sua libera scelta.
Oggi su internet molti propongono ai fedeli di far celebrare nelle chiese delle funzioni e delle preghiere in suffragio del servo di Dio Aleksej, ucciso senza colpa. Pensa che i sacerdoti lo faranno, o si lasceranno intimidire dalle autorità ecclesiastiche?
Se ci sentiamo in dovere di pregare per una persona, è senz’altro importante cercare di compiere questo dovere noi per primi, senza accollarlo ad altri.
Se andiamo in chiesa a chiedere che il suo nome sia pronunciato lì durante una funzione, va bene. Basta che questa azione non venga strumentalizzata per ostentare qualcosa.
So che [in Russia] ci sono già dei sacerdoti che celebrano delle funzioni in suffragio di Naval’nyj. Molti non lo fanno pubblicamente, oppure lo fanno con piccoli gruppi di fedeli, ma senz’altro queste funzioni vengono celebrate.
Mi sembra che per moltissime persone, anche per chi ha il cuore indurito, sia chiaro che questa è sicuramente una morte violenta, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di omicidio intenzionale. È chiaro che la morte tragica di una persona che prima è stata avvelenata e poi per alcuni anni è stata detenuta in condizioni penose e disumane, non può essere recepita diversamente. E ho l’impressione che questa compassione, se così vogliamo chiamarla, nel popolo russo non sia morta ma viva. Perché ognuno capisce che chiunque in Russia può trovarsi al suo posto, come è già capitato più volte nella storia.
(…)
I credenti naturalmente, sperano che il Signore senta le loro preghiere, che sono in dialogo con Lui. Ma la preghiera aiuta anche il defunto?
Da un lato è difficile parlare di un’azione meccanica. Dall’altro, se il Signore ci invita a pregare gli uni per gli altri, non ci indica qualcosa di inutile.
Nel Grande Vespero della Pentecoste, ci sono delle preghiere particolari da recitare in ginocchio in cui si chiede perdono «per coloro che sono trattenuti nell’Ade». In altre parole, preghiamo per chi è all’inferno. Sorge la domanda: che senso ha questa preghiera, se non avrà alcun risultato? Perciò noi crediamo che qualsiasi preghiera porta frutto innanzitutto per noi stessi, perché pregare per una persona, significa che la amiamo, che la ricordiamo e che non ci è indifferente. Crediamo che questo legame funzioni in entrambi i sensi, che noi preghiamo per queste persone e loro, sicuramente, pregano per noi.
Mi ricordo che una volta, tanto tempo fa, a Madrid è entrata nella nostra chiesa una donna. Evidentemente era di tradizione protestante, e mi ha chiesto perché nella nostra chiesa erano appese delle raffigurazioni di morti, intendendo evidentemente le icone. Era piuttosto anziana, e le ho chiesto: «La sua mamma e il suo papà sono vivi?». Lei ha risposto: «No, sono morti». Le ho domandato: «Le capita qualche volta di sentire la loro presenza? Cioè, sente che non sono morti ma sono qui e partecipano alla sua vita?». Lei ci ha pensato, è rimasta un po’ in silenzio e poi ha detto: «Sa, con l’anima lo sento, ma la mia mente si rifiuta di accettarlo».
Noi invece crediamo che le persone che abbandonano la vita terrena, non solo quelle che veneriamo come santi, ma tutti, sicuramente non muoiono, non scompaiono completamente. E capita che le persone, in certi momenti particolari della loro vita, sentano un legame molto vivo e reale con coloro la cui vita terrena è già terminata.
Nella Chiesa tutti questi limiti vengono cancellati. Noi, ad esempio, non percepiamo che san Nicola Taumaturgo è un po’ più lontano da noi rispetto a qualche altro santo che è stato quasi nostro contemporaneo. L’amore vince il tempo, la lontananza, la morte.

I. Christič, L’addio a Naval’nyj, 1 marzo 2024. (Instagram)
(…)
Cosa possiamo fare quando sentiamo che l’ira, la rabbia e l’odio, di cui in altre circostanze un cristiano dovrebbe pentirsi, in questo caso sono giusti, e che gli uccisori di Naval’nyj hanno meritato questi sentimenti?
Capisco questo stato d’animo, e che non si riesca a reprimerlo in sé con uno sforzo di volontà. Ma in questo frangente mi sembra ci possa aiutare una scena del film che ho guardato con mio figlio la settimana scorsa, la trilogia classica di Guerre stellari.
Se qualcuno l’ha visto tanto tempo fa o non l’ha mai visto, ricordo che, quando Luke Skywalker vola verso la Morte Nera, viene avvertito che rischia non solo di rimanere ucciso nello scontro con il male, ma anche di essere mosso dall’odio e dal rancore nell’opporsi al male, passando così al lato oscuro della forza forse senza nemmeno rendersene conto.
Di questo parla il film, e anche il cristianesimo ne parla. Lo spettro dei nostri sentimenti umani è sicuramente molto ampio. Lei ha parlato di odio, ira e rancore. Ma possiamo trovare altre parole: ad esempio indignazione o turbamento. Certo, è normale provare tutti questi sentimenti, ma bisogna anche rendersi conto che sono pericolosi.
Quando penso al ritorno in Russia di Aleksej Naval’nyj, mi si apre davanti agli occhi l’immagine della Discesa agli inferi del Salvatore. La discesa di Aleksej nell’inferno dove ha trascorso gli ultimi anni è stata volontaria.
Secondo me, la lezione principale che ci ha offerto con il suo esempio è stata che l’uomo può stare all’inferno senza diventarne parte.
Dobbiamo ricordarcene, ma senz’altro non possiamo pretendere da noi stessi qualcosa che è al di sopra delle nostre forze. È naturale che chiunque perda una persona cara, non importa se parente o amico, provi quei sentimenti, e ovviamente non può farsene una colpa. L’importante è capire che l’odio genera solo altro odio, e la violenza altra violenza, e qui non ci sono altre leggi che valgano.
Un’ultima domanda di quelle eterne ma che oggi è come se esigesse una nuova risposta. Perché il Signore permette il male in questo mondo?
Penso che per rispondere a questa domanda ci sia bisogno, non solo a parole ma in tutta la profondità del proprio essere, di vivere il dramma della libertà umana sia propria che dell’altro.
Perché Dio ha creato l’uomo affinché possa crescere nell’amore. E non può crescere nell’amore chi non è libero. È molto importante che nel Vangelo all’amore non venga contrapposto l’odio, come di solito si fa quando si parla, ma due cose diverse: l’indifferenza e la paura. Per questo san Giovanni evangelista afferma che: «chi teme non è perfetto nell’amore… , al contrario l’amore perfetto scaccia il timore» (cfr. 1Gv 4,18).
Se il Signore non ci avesse dato la libertà, ci avrebbe tolto la possibilità di crescere nell’amore e di crescere e svilupparci in qualsiasi altro ambito.
Qualunque situazione di crisi ci dà la possibilità di decidere di noi stessi, ci costringe sempre a scegliere come agire.
Oggi, in questi due anni di guerra, vediamo che la gente compie davanti ai nostri occhi una scelta morale, e attraverso questa scelta o cresce o diminuisce spiritualmente. La libertà comporta senz’altro dei rischi. Ma se non ci fosse questa scelta, se non ci fosse la libertà umana, la persona sarebbe condannata a rimanere quello che è. Mentre la libertà ci fa sperare di andare avanti, di cambiare, di cominciare una vita nuova.
Andrej Kordočkin
Nato a Leningrado, ha studiato teologia a Oxford. In seguito, è stato parroco per 18 anni della chiesa di Santa Maria Maddalena a Madrid e cappellano nelle carceri spagnole. All’inizio della guerra in Ucraina, ha firmato l’appello dei sacerdoti della Chiesa ortodossa russa per la cessazione del conflitto. Sospeso a divinis per tre mesi nel 2023, si è dimesso ed è passato al patriarcato di Costantinopoli. Oggi è parroco della comunità ortodossa di Tilburg, in Olanda. È tra gli organizzatori del progetto «Pace a voi», che aiuta i sacerdoti del patriarcato di Mosca in difficoltà per le loro posizioni a favore della pace.
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