22 Giugno 2021
Gite in montagna e incontri clandestini
Ricordi di gioventù di un’insegnante, che dall’incontro con don Ricci ha imparato il gusto dell’incontro e di orizzonti infiniti.
Stavo per laurearmi – era il1969 – quando don Francesco mi propose di collaborare a CSEO, la rivista del Centro Studi Europa Orientale nata pochi anni prima dal desiderio di dar voce a quella che allora veniva chiamata la «Chiesa del silenzio».
Avevo incontrato don Ricci per la prima volta nel 1962, quando una mia amica mi aveva invitato a partecipare a un «raggio» di Gioventù Studentesca, l’associazione creata da don Giussani, che l’anno prima don Ricci aveva conosciuto e la cui esperienza aveva voluto portare anche a Forlì.
Fui molto colpita da quel lungo prete, noto a tutti come «don chilometro», e dai giovani che gli stavano intorno: era la prima volta che mi imbattevo in una comunità cristiana viva, in cui le mie domande di significato venivano prese sul serio. Quando don Francesco parlava, guardandoti in modo tale da farti sentire unica, capivo che credeva veramente in quello che diceva e che il cristianesimo che mi veniva proposto era un’esperienza umana che mi attraeva, perché corrispondeva a un’attesa profonda, anche se confusamente avvertita. Ero un’adolescente inquieta, che stava per abbandonare le credenze religiose ricevute in famiglia e in parrocchia, ma quell’incontro di fatto ha determinato tutto l’indirizzo della mia vita.
Così nel 1969, quando mi fu fatta quella proposta, accettai con curiosità ed entusiasmo. Non si trattava solo di collaborare alla redazione di una rivista, ma di andare ad incontrare, nei paesi dell’Est europeo, i cristiani che vivevano ancora dietro la cortina di ferro. Il lavoro della rivista non poteva essere separato dai viaggi che si facevano allora in Jugoslavia, Polonia, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, per incontrare persone che spesso diventavano amiche: cristiani stupiti di non essere stati dimenticati dai fratelli occidentali e grati di poter far sentire la loro voce in Occidente.
Don Francesco era mosso da un autentico spirito di comunione ecclesiale e dalla convinzione profonda che i cristiani di questi paesi, che spesso avevano vissuto l’esperienza delle carceri comuniste, avessero molto da comunicare anche a un Occidente in cui secolarizzazione e consumismo stavano ormai intaccando la fede delle giovani generazioni, inquiete e attratte dall’ideologia marxista. Insieme con lui e grazie a lui io andavo scoprendo con entusiasmo che la fede, che avevo re-incontrato qualche anno prima, aveva una dimensione universale, così che era possibile riconoscere, in persone tanto diverse per età, storia e cultura, le tracce della stessa esperienza umana e cristiana.
Quando nasceva un rapporto con qualcuno, don Francesco vi restava fedele. Poteva essere una grande personalità del mondo ecclesiale o della cultura oppure un semplice credente: lui li andava a trovare regolarmente una o più volte all’anno, coinvolgendo anche noi giovani.
Per anni, insieme con lui o con amici di altre città italiane, ho partecipato ai campi estivi che padre Vinko, un sacerdote sloveno, organizzava d’estate in montagna per i giovani di diverse parrocchie della Slovenia, in cui noi giovani italiani eravamo sollecitati a testimoniare l’esperienza di fede che stavamo vivendo. Le gite in montagna (erano il motivo ufficiale dei campi di fronte al regime) si alternavano a lezioni che padre Vinko faceva, utilizzando spesso i primi testi di don Giussani, che andava traducendo in sloveno.
Ricordo con commozione l’attenzione che don Francesco aveva per i suoi interlocutori: potevano essere i sacerdoti che padre Vinko coinvolgeva nella sua opera pastorale o l’ultimo ragazzo, arrivato al campo solo per andare in montagna. Fissava intensamente l’interlocutore attraverso le spesse lenti da miope, con l’immancabile pipa appoggiata a un angolo della bocca, ascoltava con attenzione e, cogliendo al balzo ogni spunto notevole che emergeva durante il dialogo, rilanciava con foga tonante il discorso.
Negli anni ’70, su suggerimento di padre Vinko e in sua compagnia, don Francesco andò più volte ad incontrare Edvard Kocbek, poeta, scrittore e uomo politico, che era stato uno dei fondatori del Fronte di liberazione nazionale sloveno, come membro del gruppo dei socialisti cristiani. Partecipai ad alcuni di quegli incontri con grande interesse. Mi trovavo di fronte ad una persona che aveva rischiato la sua responsabilità di uomo e di cristiano nel movimento partigiano, insieme con i comunisti di Tito, ed era stato successivamente emarginato e perseguitato per le sue convinzioni.
Ascoltando queste conversazioni che spalancavano orizzonti di conoscenze nuove e aprivano inaspettate prospettive critiche su avvenimenti a me poco noti, cominciavo a comprendere che la fede vissuta e giocata nelle circostanze del vivere genera una cultura nuova e che il dialogo autentico permette di crescere nella comprensione di sé e del mondo.
Ma il debito di riconoscenza più grande che ho nei confronti di don Francesco è il fatto di avermi generato alla fede e permesso di incontrare il cristianesimo nella forma del carisma di don Giussani.
Nel suo ultimo anno di vita, durante una visita che gli feci in ospedale, casualmente fui presente ad una telefonata che don Francesco ricevette da parte di don Giussani. Con una voce resa debole dalla malattia, disse al suo grande amico: «Offro tutto per la Chiesa e il movimento».
Questa è stata la vera cifra di tutta la sua vita.
Agnese Pesenti
Laureata in filosofia all’Università di Bologna, ho collaborato al Centro Studi Europa Orientale dal 1969 agli anni ’80. Successivamente ha insegnato storia e filosofia nei licei, e storia della filosofia all’Istituto di Scienze Religiose di Forlì.
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