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3 Aprile 2020
La forza e l’abilità che dobbiamo avere
Le sciagure possono essere fonte di divisione. Dipende da noi riscoprire il senso e la prospettiva del fare insieme.
«Aveva sognato, durante la malattia, che tutto il mondo era condannato a rimanere vittima di una pestilenza terribile (…). erano comparse certe trichine sconosciute, esseri microscopici che si infiltravano nel corpo umano. Ma questi esseri erano spiriti, dotati di intelligenza e di volontà. Gli uomini che li lasciavano penetrare nel loro corpo diventavano subito indemoniati e pazzi. Mai, mai, però, gli uomini si erano ritenuti così intelligenti e così sicuri della verità, come si ritenevano quegli appestati. Mai avevano ritenuto più sicuri i loro giudizi, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e credenze morali (…). Tutti erano in agitazione, non si capivano più fra loro, ognuno pensava di essere il solo a possedere la verità e si tormentava (…). Non sapevano chi e come giudicare, non riuscivano a mettersi d’accordo nel giudicare il bene e il male (…). Si preparavano a marciare gli uni contro gli altri con intere armate, ma queste armate, quando erano già in marcia, a un tratto cominciavano a dilaniarsi per conto loro, le file si scompaginavano, i combattenti si scagliavano l’uno contro l’altro. (…). Avevano abbandonato i mestieri più comuni, perché ognuno proponeva le sue idee, le sue innovazioni, e non riuscivano mai a mettersi d’accordo, l’agricoltura era ferma (…). Cominciarono a scoppiare molti incendi, cominciò la carestia. Tutto e tutti perivano. In tutto il mondo potevano salvarsi solo pochi uomini, i puri e gli eletti, che erano predestinati a iniziare una nuova razza umana e una vita nuova, a rinnovare e purificare la terra; ma nessuno aveva mai veduto questi uomini, nessuno aveva mai udito la loro voce e la loro parola».
Sembra un brano di un romanzo catastrofico scritto in questi giorni, con gente che si divide perché convinta di possedere la verità e che subito dopo crea nuove divisioni perché afferma la verità contraria: pensiamo a chi sosteneva che il coronavirus fosse poco più che un’influenza e poi si è messo a parlare di virus mutati o di virus stranieri; pensiamo a chi sosteneva che si poteva lasciar infettare l’80% della popolazione e a chi sosteneva invece che il virus andava contrastato perché era frutto di una congiura, ora americana, ora cinese, ora delle grandi ditte farmaceutiche che nascondono l’efficacia di cure semplicissime per poter guadagnare dalla vendita dei loro futuri costosissimi ritrovati.
Davvero il brano appena letto sembra scritto in questi giorni, con gente che pretende di essere alla guida dell’Europa e poi si chiude in un fortino assediato in tempo di guerra (e come farà quest’Europa a parlare ancora di solidarietà, dopo?).
E si potrebbe andare avanti, ma il testo che abbiamo appena letto non è di uno scrittore contemporaneo; è uno dei passi finali di Delitto e castigo, dove Dostoevskij traccia il nucleo delle idee che hanno portato Raskol’nikov a uccidere quella che lui riteneva uno scarto inutile e nocivo, il nucleo delle idee che ammorbano l’uomo e uccidono l’uomo nell’uomo quando crede di poter essere padrone della vita e poi si ritrova capace solo di generare morte. Ed è il nucleo ideale di quelli che poi sarebbero stati grandi sistemi totalitari del XX secolo.
Quei sistemi sono finiti, e tuttavia anche noi oggi siamo in guerra, in una guerra molto simile a quella descritta da Dostoevskij, tra virus sconosciuti e divisioni interne. Ed è una guerra mondiale, che coinvolge l’umanità intera, nella sua sopravvivenza fisica e nella sopravvivenza della sua civiltà: non è un caso che a proposito dei vaneggiamenti sull’immunità di gregge qualcuno abbia parlato di una «Brexit dalla civiltà».
«Siamo in guerra». Quante volte nei giorni scorsi amici europei, russi e americani ci hanno incoraggiato dicendoci: «Forza, siete in guerra» e oggi ci fanno forza dicendoci: «Siamo in guerra»; con il sottinteso che alla fine, forse, riusciremo a vincerla, questa guerra.
Ottimismo? Di più…
Ma né a noi né ai nostri amici può bastare questo sottinteso ottimismo. Dopo il troppo facile entusiasmo delle prime ore, e il tormentone dell’«andrà tutto bene», si è fatta sempre più strada, con l’aumentare delle sofferenze, dei morti e dell’incertezza sul futuro, una coscienza diversa: e se anche ce la faremo, cosa diremo a chi nel frattempo non ce l’ha fatta, e come faremo noi stessi a farcela se familiari e amici non ce l’avranno fatta? Come faremo a non farci sommergere dal peso di una domanda che non potremo eludere: «Perché loro e non noi?».
Dove si fonda la nostra speranza perché non sia l’irresponsabile ed egoistico «lasciateci vivere, noi siamo forti» o l’immobilizzante fatalismo del «verrà qualcuno a salvarci»? Dove si fonda la nostra speranza perché non sia la nuova illusione di chi si credeva padrone del mondo e si è trovato a non poter più nemmeno uscire di casa, o perché non sia la vecchia illusione di chi pensa di cavarsela affidandosi a qualche padrone del mondo e finirà ugualmente prigioniero anche se in maniera diversa?
«Siamo in guerra», questo è sicuro, ma dove si fonda allora la nostra speranza?
Delle ragioni della speranza parlò il presidente cecoslovacco Havel nel 1995, proprio in occasione del cinquantesimo anniversario dalla fine della seconda guerra mondiale: interveniva a un convegno che si teneva a Hiroshima; ripensando alla tragedia di quella guerra e di quella città, e avendo anche sullo sfondo la sua storia di dissidente che sembrava non aver altra prospettiva se non quella di una eterna galera comunista, Havel fece questa osservazione:
«La speranza è semplicemente un fenomeno esistenziale che non ha nulla in comune con i pronostici. Tutto può apparire con le tinte più fosche e noi – per qualche motivo segreto – non perdiamo la speranza (…). È evidente allora che la speranza, intesa così, ha un legame diretto con la concezione del significato dell’esistenza: finché ce l’abbiamo, abbiamo anche una ragione per vivere».
L’uomo sa di dover morire, continuava allora Havel, «ma se sappiamo di dover morire (…) perché allora viviamo e perché ci diamo un gran daffare? (…) L’unico fattore che può rendere comprensibile una vera speranza è la profonda e sostanzialmente atavica certezza dell’uomo (…) che la nostra vita terrena non è solo un evento casuale fra miliardi di altri eventi cosmici casuali che svaniranno nel nulla (…). Sì, solo la dimensione dell’infinito e dell’eternità, accolta o intuita, può spiegare quell’altrettanto misterioso fenomeno che è la speranza».
Ora, questa speranza deve avere un nome e un volto perché possa essere condivisa: lo dice lo stesso Havel quando precisa di non conoscere un solo caso di qualcuno che abbia continuato a vivere, anche se in condizioni disperate, non avendo «accolto o intuito» questa dimensione di eternità.
Occorrono dunque testimoni di questa ragione del vivere e occorre saperli guardare e ascoltare per dare un volto e un nome ancora più chiaro a questo infinito.
Ascoltiamo allora un altro testimone. Siamo sempre in guerra; questa volta però non è la nostra, ma è ancora la seconda guerra mondiale; siamo in Francia, alla periferia di Parigi dove stanno per arrivare le truppe naziste; a casa di Berdjaev, uno dei grandi filosofi cristiani della prima metà del XX secolo, si è riunito un gruppo di profughi russi, espulsi dal loro paese all’inizio degli anni Venti perché considerati irriducibili al sistema sovietico; tutti dicono di non poter più lavorare in quelle condizioni tremende. Alcuni di loro hanno alle spalle una spericolata militanza rivoluzionaria, altri si guadagneranno il martirio (tra di loro c’è madre Marija Skobcova che morirà a Ravensbrück per l’aiuto dato agli ebrei), eppure tutti dicono di aver perso la tranquillità necessaria per lavorare; solo Berdjaev dice di riuscirci ancora: non sa dire il perché, anche lui ha i nervi scossi fino all’inverosimile ma riesce a lavorare nonostante tutto.
La moglie, annotando l’episodio in una pagina di diario, racconta di avere cercato di spiegargli questo perché dicendogli che riusciva ancora a tirare avanti perché: «con te c’è sempre Cristo».
La sfida della guerra che stiamo vivendo è quella che ci ripropongono Havel e Berdjaev, richiamandoci la presenza di un senso e di un compagno che dà un volto e una concretezza a questo senso e ci permette non di cancellare la paura, ma di non farci definire da essa.
Non si tratta né di una religione universale, nella quale Havel (proprio nel discorso appena citato) diceva di non credere affatto, né di un battesimo forzato, che annullerebbe quello che Berdjaev maggiormente amava del cristianesimo: la libertà, la responsabilità creativa cui l’uomo è chiamato a immagine del Creatore.
Fuori da ogni fatalismo pagano come da ogni orgoglio spirituale, si tratta di chiedersi cosa ci dice oggi un’altra testimonianza, quella di un passo famoso del Manzoni a proposito della peste del Seicento e del ruolo che vi ebbero un gruppo di frati, chiamati a farsi carico di tutto quando nessuno voleva o poteva fare alcunché: «Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell’abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato, senz’altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz’altro fine che di servire, senz’altra speranza in questo mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso, e si supponeva che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti, essi lo dovevano avere. E perciò l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa».
La «memoria» e la «gratitudine» di cui parla il Manzoni sono un altro modo di intendere la sfida di Havel e Berdjaev, un altro modo di chiedersi quali siano le ragioni della speranza, cosa vogliano dire adesso questa «forza» e questa «abilità», e cosa vorranno dire dopo, quando non si tratterà più di sacrificarsi come allora quei frati e molti oggi, ma si tratterà di mantenere una vita o di ricostruirla quasi da zero, cioè quando – non possiamo più farci illusioni di onnipotenza – si potrà vivere solo per «carità».