13 Aprile 2021
Viaggiando per la Jacuzia
La memoria può consistere in un piccolo gesto, in un breve racconto, che bastano a rompere il ghiaccio dell’indifferenza che ci rende fragili. In Russia si è creata una comunità di persone che non si stancano di rispolverare le storie dolorose del passato. La loro è un’opera di civiltà.
Papa Francesco nella Fratelli tutti sottolinea tra l’altro l’importanza del senso della storia, che ha un peso decisivo nel destino dell’uomo e della comunità umana, «la perdita del senso della storia provoca ulteriore disgregazione», dice. Il non voler sapere nulla, il disprezzo generalizzato per la tradizione spirituale che ci ha generati prendono le forme «di una sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero…», una pretesa che si paga poi a caro prezzo.
In Russia oggi ci sono molte persone che combattono un vera e propria guerra per salvare la memoria del passato totalitario, non per singolare accanimento contro la figura di Stalin, ma perché sanno, o intuiscono, proprio ciò che ha espresso il papa, e cioè che uomini «vuoti, sradicati, diffidenti di tutto» finiscono per sottomettersi al potere di turno con maggiore facilità.
Fra le innumerevoli storie che testimoniano l’appassionato attaccamento alla memoria, ne raccontiamo una, riportata da Galina Višnevskaja un medico che per un certo periodo, alla fine degli anni ’80, ha lavorato a Ust’-Jan’e, in Jacuzia.
«Dovendo andare in trasferta, approfittai del passaggio per Ust’-Jansk offertomi dal capo del servizio sanitario della regione, il dottor Šlemskij (di cui purtroppo non ricordo nome e patronimico), una persona in gamba e molto rispettata.
Circa a metà strada l’autista chiese qualcosa al suo capo che gli sedeva accanto; quello annuì. La macchina si accostò al bordo della strada, il dottore aprì il vano portaoggetti e ne tolse una bottiglia di vodka, un bicchiere e una pagnotta color grigio. Poi lui e l’autista scesero. Io, non capendo cosa succedeva, rimasi nell’auto… Dopo un minuto l’autista si avvicinò e mi chiese: “Non preoccuparti… Non capisci cosa succede? Scendi e vieni a vedere”.
Allora scesi e mi avvicinai al bordo della strada che serpeggiava sulle pendici delle colline… Sul bordo dell’asfalto era appoggiato il bicchiere pieno di vodka, e sopra di esso la pagnotta. Più in basso, sotto il nastro della carreggiata, a destra e a sinistra, c’erano i resti di torrette di guardia… Oltre si vedeva un avvallamento tra le colline, poi la strada invernale. Più in là ancora si vedevano delle macchie bianche appena distinguibili. Il dottore disse che erano le tavolette coi numeri, alcune con i nomi: era con quelle che abbandonavano i detenuti morti.
Una volta, dovettero fare un trasferimento da Ust’-Kujgа a Deputatskij: 250 km a piedi, d’inverno a -45°… Ogni detenuto spingeva davanti a sé un pneumatico per auto. Quando si fermavano per la notte, incendiavano i copertoni e si stringevano al falò.
C’era anche Šlemskij tra di loro, aveva 17 anni…
Suo padre era ingegnere capo di una fabbrica, e nell’appartamento in coabitazione dove stavano gli avevano dato una stanza in più per loro quattro; per questo il vicino, che aveva sei figli e una stanza sola, aveva scritto una delazione… Il padre e la madre vennero fucilati, il fratello piccolo di 10 anni finì all’orfanotrofio e lui, sotto scorta in un lager della Jacuzia…
I detenuti più grandi lo spingevano vicino al fuoco, facendosi più indietro, appoggiati schiena contro schiena… Al mattino quelli più esterni che erano rimasti congelati venivano ammonticchiati l’uno sull’altro, e accanto ci mettevano le tavolette col loro numero… Col permafrost, d’inverno, era impossibile scavare. Poi la squadra proseguiva.
Più o meno a metà strada – là dove ci eravamo fermati noi, – c’era un lager permanente dove si fermarono qualche giorno affinché la scorta potesse riposare e avere il cambio. Nel campo c’erano delle baracche di semplici assi, e stufe fatte con dei bidoni. Dopo qualche giorno di “riposo” proseguirono. All’arrivo, del gruppo rimaneva circa un quarto. Gli altri erano rimasti lungo tutto il percorso, con accanto la loro tavoletta…
Il dottore fu salvato da quelli che a forza lo spingevano più vicino al fuoco…
Fu la prima volta che vidi un uomo grande e grosso, coraggioso, già brizzolato, stare in piedi e piangere… Mi raccontò queste cose guardando giù nella valle e le lacrime gli scorrevano sul viso come un ruscello.
Una cosa che non si può dimenticare. Quelle torrette mi sono rimaste nella memoria per sempre. Come il lager di trasferimento nel villaggio Nižnejansk. Con ancora il filo spinato, le baracche con resti di pittura verde, con dentro le stufette “buržujki” e le pareti con graffiti in tutte le lingue… cognomi, nomi, indirizzi mezzo cancellati. Nessuno porta mai via niente di lì, né osa entrarci.
Gli indigeni jakuti dicono: “Non si può. Qui c’è stato troppo dolore. È un luogo che fa paura”.
Anch’io ho paura… Un paese che ha permesso cose simili, può rifarlo ancora e ancora…».
Marta Dell'Asta
Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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