26 Marzo 2024
Un angelo nel rogo di Mosca
La storia di Maksim, «una vita che non doveva esserci».
Lo spaventoso attentato di venerdì 22 marzo al Crocus, una grande sala da concerto alla periferia di Mosca, ci ha rovesciato addosso l’orrore di una violenza senza confini. Com’è facile dimenticare che dietro le cifre spaventose delle vittime, che salgono di ora in ora, ci sono volti, storie, destini. Le persone – le vittime – sembrano quasi scomparire, nel vortice di violenza delle efferatezze commesse, e poi delle speculazioni, manipolazioni politiche, nella furia di vendicare il male commesso oppure di piegare i fatti a giustificare ulteriori possibili violenze. Per fortuna, vi sono storie, episodi, che ci riportano all’umano: è arrivato fino in Occidente l’atto di eroismo del quindicenne Islam, che ha messo in salvo un centinaio di persone grazie alla sua prontezza di spirito e abnegazione – un volto che ha restituito un soffio di umanità a una tragedia che ci lascia senza respiro. Anche la storia di Maksim, che ho potuto conoscere in questi giorni attraverso alcuni amici ortodossi, ci aiuta a rimetterci di fronte al mistero della vita e della morte, e della morte e della resurrezione, in cui entriamo proprio in questi giorni.
Venticinque anni, in carrozzina perché affetto da atrofia muscolare spinale, era andato al concerto dei Picnic con la sua ragazza. Quando i terroristi sono entrati in sala non aveva via di scampo, è stato crivellato di colpi al petto, ma ha avuto – come ultimo gesto – la prontezza di buttarsi in avanti facendo così scudo con il proprio corpo alla ragazza, che si è salvata.
Una vita breve la sua, che non avrebbe dovuto esserci. Sua madre l’aveva raccontata undici anni fa, con tutto lo strazio di una donna che vede la sofferenza del figlio: «Che cosa non darei perché mio figlio camminasse. È diventato alto, adesso, ma noi non ce ne rendiamo conto perché lo vediamo camminare solo sulle ginocchia. E alla sera gli accarezzo le ginocchia piene di calli e sorrido, perché mi guardano gli occhi del mio ragazzo, che intuiscono ogni cambiamento del mio stato d’animo».
Il cammino di Elena Verbeninova non è stato facile. Lei e il marito avevano inutilmente sperato per anni di avere un figlio, sembrava che la possibilità di concepirlo fosse loro negata. E quando finalmente – quasi rispondendo alle ardenti preghiere di Elena – si annuncia una gravidanza, insorgono dei problemi. Elena rifiuta l’aborto prescrittole dai medici e per mesi si porta dentro, insieme al suo bambino, l’angoscioso segreto di cui non osa mettere a conoscenza neppure il marito, che si aspetta che lei «partorisca un maschietto sano, bianco e rosso, oppure casomai anche una bambina»; alla sola eventualità che «qualcosa nel bambino non sia a posto», Aleksandr la «guarda con occhi talmente spaventati, che io – ricorda Elena – avrei voluto essere tanto grande e potente da stornare qualunque ombra di sventure e dispiaceri dalla sua vita, e tantomeno avrei voluto essere fonte di questi dispiaceri».
Davanti al bambino disabile il marito non regge, e come molti padri in Russia lascia la famiglia. Per Elena e Maksim comincia una quotidianità fatta di «fisioterapia, massaggi, piscina, di ogni genere di riabilitazione possibile». E di appartenenza sempre più stretta alla vita della Chiesa, dal giorno in cui la fisioterapista le fa una strana domanda: «“Ma il suo bambino non fa la Comunione? Non mi fraintenda, ma se un bambino è spiritualmente in salute, si lavora meglio”… Io non mi ero mai posta la domanda se credevo. Per me la domanda era una sola: “Che cosa posso fare per il bambino? Andare sulla luna? Saltare con il paracadute, ben sapendo che non si aprirà, se questo desse una possibilità di recuperare la salute a mio figlio?”. Così, in chiesa non ci sono andata, ci sono volata». In chiesa Elena e Maksim ci resteranno: nella parrocchia trovano una famiglia che li accoglie e li accompagna nel loro dolore e nelle loro gioie, li aiuta ad aprire gli occhi su ciò che veramente conta.
Nel gennaio 2013 Elena poteva dire: «La vita mia e di Maksim è come quella di tutti. Solo, non sappiamo volare. Noi ce la raccontiamo così. Infatti, la gente non si preoccupa di non saper volare. Eppure agli uccelli, probabilmente, sembra strano. “Poveretti – pensano gli uccelli – guarda che fatica fanno a superare ostacoli che si farebbe così in fretta a sorvolare”. Le persone non volano, e qualcuna poi non cammina. Ma le persone hanno gli angeli. E gli angeli condividono sempre le loro ali. E possono volare molto alto…».
«La nostra vita continua – diceva ancora Elena, che proprio in seguito all’incontro con la Chiesa comincia a sua volta a lavorare per un portale ortodosso che si occupa di opere di carità, – e noi abbiamo imparato ad apprezzare quello che non ci giunge per i nostri meriti, ma per grazia: amici fedeli, un lavoro interessante e un sacco di persone buone. Non avrei mai saputo di avere intorno queste persone, perché non ne avrei mai avuto bisogno. Non sono sola, non ho solo due braccia per sollevare mio figlio, ma decine di forti braccia protese. Non sono una donna abbandonata con un ragazzino disabile, ma una mamma amata teneramente da suo figlio. È il bambino che ho supplicato di concepire, per cui ho sofferto, e la battaglia per lui continua, perché la vita continua, e nella vita tutto è possibile. Certo, vorrei che la sua disabilità fosse un brutto sogno, e che svegliandomi potessi vedere fuori dalla finestra il mio ragazzo che corre veloce… Ma la cosa essenziale è che il suo cuore continui a restare attaccato a quanto c’è di più prezioso, la fede. Non siamo soli in questo mondo, a tu per tu con la nostra disperazione. Non siamo abbandonati, dimenticati, c’è qualcuno che ci aspetta, che crede in noi. Noi questo lo sappiamo bene, anche se ce ne dimentichiamo continuamente…».
Una vita che non doveva esserci, e che sacrificandosi ha donato la vita a un’altra. E ora vola in alto, molto in alto, con il suo angelo, come aveva compreso da tempo la mamma.
Foto: Telegram, pravmir.ru
Giovanna Parravicini
Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.
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