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23 Dicembre 2020
Il Natale di Cristo e i bimbi non nati
Difendere Cristo opponendosi con tutti i mezzi ai faziosi, come in Polonia? O percorrere la via dell’amore per gli innocenti e i non innocenti…
Il lungo articolo che abbiamo pubblicato di recente sulle polemiche attorno all’aborto in Polonia, voleva presentare la complessità della situazione polacca e le molte domande che emergono anche all’interno della Chiesa. Proprio nella Chiesa si evidenzia una varietà di posizioni che finisce per mostrarne un volto drammaticamente frammentato, e che non può non interpellarci nella ricerca di un giudizio che riconosca e si assuma tutta la fatica di valutare dati così contraddittori.
Perché se è un dato di fatto il profondo cambiamento della società polacca negli ultimi 30 anni (le cui avvisaglie peraltro si erano già intuite nel corso degli ultimi viaggi di san Giovanni Paolo II nel suo paese natale), non si può non riconoscere all’interno della Chiesa in Polonia la stessa dicotomia esistente tra una concezione del cattolicesimo che lo identifica soprattutto con il «patrimonio ideale della nazione polacca», e quella che vede l’essenza della fede non solo come l’accoglienza di un elenco di valori, bensì come l’esistenza di un rapporto vivo e vitale con Cristo, capace di riproporne l’agire oggi, a beneficio soprattutto di quanti vivono un’oggettiva situazione di paganesimo, in cui si uniscono – come agli albori della Chiesa – l’ignoranza di Cristo e l’avversione a Lui.
Da questo punto di vista, quanto sta avvenendo in Polonia non è differente da quanto accade in altre parti del mondo, segnatamente in Europa e in America, dove si registra ormai un drammatico scadimento della capacità di utilizzare la ragione quale strumento di relazione con sé e con la realtà.
Ci troviamo di fronte a un esercito di manifestanti che non vede nell’aborto altro che un «diritto umano» da difendere, e che propugna – forse senza saperlo – un’idea di libertà «assoluta» che non accetta limitazioni nel suo esercizio, e che però si sa esercitare in una forma che è esclusivamente «contro a» e «distruttiva di» qualcosa d’altro (come nel caso in cui non si accetti di riconoscere che l’embrione è «qualcuno», e non «qualcosa»). Tutto questo mostra quanto poco rimane di umanità a chi non ha nemmeno capito di avere già in sé, in questo «non pensiero», i semi dell’autodistruzione.
Come rispondere a questa deriva di un individuo che nemmeno più sa avere una reale tenerezza e affezione per se stesso, dal momento che non esiterebbe a decretare la propria stessa eutanasia, nel momento in cui si trovasse insidiato da un’inevitabile limite, posto dalla malattia o anche solo da un malessere psicologico? Certamente è difficile che servano e bastino le argomentazioni – pur logicissime e verissime – in difesa della vita, per far mutare opinione a chi alla logica ha già da lungo tempo rinunciato in favore dell’arbitrio e di una sciatta riedizione della volontà di potenza di nietzschiana memoria.
Forse proprio dalla tradizione bizantina può venirci un aiuto prezioso: spesso, infatti, ricorre nei testi natalizi l’interpretazione che vede Cristo come il «Logos», – un termine che possiamo tradurre anche come «ragione» – che viene a salvare gli uomini «alogoi», ovvero «privi di ragione», ma anche «privi di una parola sensata», simboleggiati dal bue e dall’asino del presepe. E qui viene notato che il Logos fatto carne inizia quest’opera di salvezza anche prima di saper parlare, semplicemente con la sua presenza, con il suo «essere-accanto» a chi è ancora «alogos» («senza parola» / irragionevole).
Seguire questa strada non è certo facile, e richiede una vera ascesi, per non cedere all’illusione di chi crede di rispondere all’irrazionalità con manifestazioni di forza o partendo dall’affermazione della propria superiorità morale. Piuttosto richiede una convinta imitazione del metodo di Dio, quello descritto così da san Paolo (Rm 5,5b-8):
«l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».
Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha così sintetizzato questo principio (cc. 92-94 passim): «La statura spirituale di un’esistenza umana è definita dall’amore, che in ultima analisi è il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Tuttavia, ci sono credenti che pensano che la loro grandezza consista nell’imporre le proprie ideologie agli altri, o nella difesa violenta della verità, o in grandi dimostrazioni di forza. Tutti noi credenti dobbiamo riconoscere questo: al primo posto c’è l’amore, ciò che mai dev’essere messo a rischio è l’amore, il pericolo più grande è non amare (cfr 1 Cor 13,1-13). Cercando di precisare in che cosa consista l’esperienza di amare, che Dio rende possibile con la sua grazia, san Tommaso d’Aquino la spiegava come un movimento che pone l’attenzione sull’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stesso. (…) Tutto ciò parte da una stima, da un apprezzamento, che in definitiva è quello che sta dietro la parola «carità»: l’essere amato è per me «caro», vale a dire che lo considero di grande valore. (…) L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali».
A nessuno sfugge quanto siano esigenti queste parole, dal momento che può essere davvero difficile considerare «prezioso, degno, gradito e bello» chi manifesta a favore dell’aborto.
Ma proprio qui sta la novità cristiana: nel non voler e non poter separare la lotta per la dignità di un bimbo ancora non nato, dalla compassione – anzi, dall’amore – per chi non vuole o non sa riconoscerlo come essere umano.
E non si tratta solamente di affermare in linea di principio questa inseparabilità. La sfida più difficile è domandare un cuore pienamente ragionevole, capace di accogliere e fare affettivamente sua la cura per gli uni e per gli altri. Che, nello stesso tempo, diviene l’unico vero modo di amare in verità anche se stessi e Dio.
La portata di questa sfida è davvero epocale. Ma non è un cammino sconosciuto alla storia bimillenaria della Chiesa. Ne saremo degni?
Francesco Braschi
Sacerdote, dottore in Teologia e Scienze Patristiche, dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano e direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana. È consultore della Congregazione del Rito ambrosiano e docente a contratto di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
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