14 Novembre 2022
Voci dall’Ucraina / 4 / La strada è la solidarietà
Il filosofo ucraino sottolinea le problematiche spirituali e morali che la guerra implica per tutta l’Europa. E che senza il recupero della solidarietà sarà difficile uscirne.
La guerra è arrivata a una svolta?
La risoluzione votata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in cui si definisce «terrorista» l’attuale regime della Federazione Russa è molto importante, anche se ci è voluto molto tempo per arrivarci. E si sa che il tempo costa molto caro in Ucraina, il prezzo si paga in migliaia di vite, in massacri, di soldati ma anche di civili, tra cui bimbi e anziani. A Buča si è svelata la natura di un’aggressione che mostra sempre più i tratti del genocidio.
I bombardamenti di Kiev e delle altre grandi città, che hanno distrutto il 30% delle strutture energetiche ucraine, hanno fatto sprofondare nell’oscurità milioni di persone, privandole dell’acqua e dell’elettricità. Ormai è impossibile chiudere gli occhi davanti al fatto che si tratta di una guerra contro l’Europa, tanto più che lo ha affermato chiaramente il padrone del Cremlino. Non dobbiamo crogiolarci nell’illusione che sia un conflitto locale dell’Est Europa. È l’intera nostra famiglia europea che viene attaccata. Siamo arrivati a un momento storico preciso, e nuovo.
In che senso?
Questa presa di coscienza si sta facendo strada nelle opinioni pubbliche e nei gabinetti politici. L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza, Josep Borrell ha giocato la partita della diplomazia sino alla fine, è stato fra gli ultimi ad andare al Cremlino per tentare di negoziare, ed è stato oltraggiato dal comportamento dei suoi interlocutori, che hanno disertato il campo diplomatico per passare all’aggressione fisica. È il momento della verità per l’Europa ormai diventata adulta, ma che deve ancora crescere in tutti i sensi. Il messaggio di Josep Borrell e di altri leader politici europei, per cui qualsiasi attacco nucleare della Russia contro l’Ucraina comporterà una risposta militare degli occidentali «così potente che l’esercito russo sarà annientato», fa da scudo all’Europa. Impedisce di passare al livello successivo dell’escalation.
In che modo?
La nostra capacità di difendere la nostra libertà e di dirlo in modo fermo rappresenta l’unico modo di evitare il peggio. È sicuramente una delle lezioni più grandi che ci offre la storia contemporanea dell’Europa.
Finalmente le cose si chiamano col loro nome, e questo segna una svolta. Perché con i terroristi bisogna parlare in modo diverso. Il che non vuol dire che si smette il dialogo, ma che ci si rivolge loro in modo adeguato.
Lei sta per pubblicare un libro, Quando l’Ucraina si alza. Nascita di una nuova Europa (Ed. Talent). Quale nuova Europa può nascere da questa guerra, e come?
Nella misura in cui capiamo che la distanza tra la parola e l’azione non deve più essere presa alla leggera. Perché le azioni tardive sono più difficoltose. Bisogna passare a un nuovo livello di organizzazione per cui le società democratiche acquistino maggior peso. Dopo i bombardamenti d’ottobre a Kiev e in altre città ucraine è lampante che si tratta di un conflitto fra uno Stato autoritario e il campo democratico. Ed oggi quel che succede viene scrutato attentamente dagli altri Stati autoritari.
L’unico modo per evitare che gli Stati democratici vengano divisi o rovesciati è capire che si gioca tutto sul piano globale:
noi non possiamo accettare un mondo in cui i gangster hanno mano libera nel fare violenza e, peggio ancora, nell’organizzarsi tra loro. La vera forza dei paesi democratici è la solidarietà, presa seriamente ed incarnata.
I metalli più resistenti sono delle leghe. Davanti alla prova, bisogna legare solidarietà, libertà e coraggio. Dopo gli attacchi terroristici del 2015 il Parlamento francese aveva cantato in piedi l’inno nazionale. Tutti i paesi democratici sono invitati a cantare in piedi un inno alla solidarietà e alla libertà.
Ma le sembra che l’Occidente sia abbastanza armato, in senso morale e spirituale, per rispondere ai discorsi politici e religiosi sui valori e la forza che si fanno in Russia?
È una bella questione. Ma la storia europea ci fa vedere le autentiche alternative. Nella nostra cultura sono sopravvissuti solo i canti che esaltano la libertà dell’uomo, non quelli che sono stati creati dai tiranni. Non c’è una musica di Hitler. La nostra lingua e la nostra musica stanno dalla parte della libertà, poiché è noto da sempre che non si può essere felici, cantare o suonare se non si è liberi. Peter Bannister, un autore britannico che abita a Cluny, in Francia, ha messo nuovamente in musica le parole della Salve Regina – un inno che è stato cantato da un capo all’altro dell’Europa per secoli, non esclusa Kiev dove la si cantava in latino – riprendendo il verso «post hoc exilium» dopo che aveva visto dei francesi che accoglievano gli ucraini…
Questo slancio vitale di solidarietà, questa buona volontà della gente di condividere i propri beni e di accogliere ha suscitato lo slancio eccezionale che ha fatto fiorire questa melodia in questo annus horribilis.
Le tentazioni di autodistruzione in Europa oggi devono trovare un antidoto. Basta guardare che distruzione della società produce lo Stato autoritario. In Russia il numero di persone che si infliggono automutilazioni per non andare in guerra rivela tutto l’orrore di questo processo autodistruttivo. Ci fa capire che non è questo l’esempio da seguire.
Ma come reagire?
Non dobbiamo lasciare che la paura ci divida. Cedere al ricatto del freddo, della fame e dell’impoverimento, poiché è come un drago dalle molte teste che può vivere solo a patto che si accetti la paura come leva dell’azione politica. Di fronte al discorso sui valori, in Europa ci teniamo veramente a virtù come il coraggio, la libertà e la solidarietà?
In Europa molti sono impressionati dalla resistenza degli ucraini, per cosa sono pronti a morire?
La domanda «per cosa» siamo disposti a morire risuona in ciascuno di noi dal 24 febbraio, e in tutte le nostre conversazioni. Ma quello che ci può chiarire veramente quale sia la direzione giusta da seguire è passare dal «per cosa» al «per chi». Le persone hanno sempre delle ragioni profonde nel prendere le decisioni capitali, e non è per nulla facile decifrare le motivazioni personali nel volto di quelli che fanno la coda per arruolarsi nell’esercito ucraino. Il 30% sono donne. Per chi siamo pronti a morire?
Per tutto l’inverno del 2013, quello della rivoluzione della dignità sul Majdan, sono stato agitato dal fatto che mio figlio passasse molte notti sulla piazza. Andare o non andare al Majdan per me significava raggiungere una delle persone che amo di più. È questa solidarietà concreta, radicata e rafforzata dalla prova che mi ha dato il coraggio, io che ero più abituato a riflettere e a vivere tra i libri. Così, ogni gesto di solidarietà che ha luogo oggi in Ucraina è possibile solo in quanto lo facciamo per sostenere i nostri amici, gli studenti, i nostri cari che si battono per la libertà. Questa presa di coscienza è necessaria pure in Europa. La possibilità di fare una conversazione libera, come la nostra qui ora, si pone a sostegno di chi tiene il fronte.
Cosa vi permette di tener duro?
Per la copertina del mio prossimo libro ho chiesto al fotografo Dmitro Kozac’kij, che ha ripreso i volti dei difensori di Mariupol’, di regalarmi una delle ultime foto che ha fatto prima di essere fatto prigioniero (in seguito è stato liberato). Nel sotterraneo di una fabbrica un essere umano leva le braccia verso la luce. È un’immagine cristica. In quel raggio di luce si disegna una sorta di asse antropologico: cosa c’è di invincibile nell’uomo, cosa gli permette di rialzarsi nonostante i bombardamenti, e di non abbassare le braccia?
A volte può essere questo raggio. A volte sono dei contatti personali. All’inizio della guerra concedevo sino a dieci interviste al giorno, alla televisione. Spesso mi chiedevano: «È un inferno da voi?», e bisognava raccontare. Ma poi, qualche giornalista allargava l’orizzonte, e allora potevo parlare della resistenza, di Hannah Arendt, della libertà… Certe volte la qualità dell’ascolto e dello scambio rivela e risveglia in noi la capacità di essere più forti di quanto potessimo immaginare. Con le sue domande l’altro ci offre una scala non per scendere, ma per salire.
Quale immagine porta con sé oggi?
Esattamente l’immagine di quel raggio di sole, fonte della forza che guida gli astri nell’universo, come lo canta Dante nella Divina Commedia. In ogni cantina riesce a filtrare un raggio, ne ho fatto esperienza io stesso in marzo, guardando un piccolo sole che filtrava da un interstizio fra due sacchi di sabbia e che salutavo ogni mattina. Ho provato a fotografarlo ma non è venuto niente, forse perché più che altro ce l’avevo dentro di me. Viceversa, la foto di Dmitro Kozac’kij mostra l’esperienza che vivono milioni di persone.
San Giovanni lo dice bene: le tenebre non possono accogliere la luce. Un’altra opera incarnata che fa eco alla mia esperienza è un piccolo canto di Valentin Silvestrov per la comunità di Taizé. Le parole sono di un canto natalizio in cui si dice che non sono le buone intenzioni a cambiare il mondo, ma l’incarnazione: «Rallegrati Terra, il figlio di Dio ha consolato il suo popolo». Non facendo gesti stratosferici ma nascendo – come Gesù – in mezzo agli innocenti massacrati da Erode, precursore di Ponzio Pilato. È questa piccola incarnazione che cambia il mondo, e questo piccolo canto riecheggia questo minimalismo che si oppone al monumentalismo dei tiranni.
Che ruolo ha la fede nella capacità di resistenza?
Una delle lezioni fondamentali di quest’anno è che proprio a partire dall’incarnazione possiamo capire che l’umanità è capace di fare miracoli. Ricordiamo ancora il caso di Melanija, la bimba salvata dalla madre che l’aveva protetta col suo corpo durante un bombardamento a Mariupol’, nel 2015. Questa realtà è necessaria per affrontare la sorte dei 300.000 bambini rastrellati e deportati in Russia.
Per resistere alla tentazione di snaturare la fede con il discorso sui valori tradizionali, bisogna radicare fortemente le nostre convinzioni nell’azione caritativa, e in una filosofia dell’umano che precede qualsiasi discorso sulla fede. Forse un giorno potremo riprendere le parole di Tertulliano, secondo cui l’essere umano è per natura cristiano, ma potremo farlo soltanto se saremo veramente umani. Altrimenti sarà un’impostura.
(intervista di Marie-Lucile Kubacki per lavie.fr)
foto d’apertura: D. Kozackij – facebook)
Konstantin Sigov
Docente di storia delle idee teologiche e filosofiche all’Università statale Accademia Moghiliana di Kiev, dirige il Centro di ricerche umanistiche europee. Nel 1992 ha fondato l’Associazione culturale ed editoriale «Duch i litera», di cui è direttore.