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24 Dicembre 2017
Natale e l’umanità senza amore
«Loveless», ovvero, con il pregnante termine russo neljubov’ – non-amore. Questa l’implacabile diagnosi del nostro mondo che scaturisce dall’ultimo film di Andrej Zvjagincev, selezionato tra i migliori film in lingua […]
«Loveless», ovvero, con il pregnante termine russo neljubov’ – non-amore. Questa l’implacabile diagnosi del nostro mondo che scaturisce dall’ultimo film di Andrej Zvjagincev, selezionato tra i migliori film in lingua straniera per il premio Oscar dopo i riconoscimenti avuti a Cannes.
«Che cos’è la verità?», chiese Pilato a Cristo. Oggi la vicenda che si svolge nel film – due coniugi così travolti da rancori reciproci e da nuove passioni da non accorgersi quasi della scomparsa del figlio dodicenne – sembra chiederci: «Che cos’è l’amore?».
Pasolini aveva icasticamente definito il male dell’uomo di oggi: «Dà angoscia / il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più».
È questo «consumato amore» che vede i genitori di Aleša guardarsi con implacabile odio, e guardare al proprio figlio unicamente come a un ostacolo a realizzare i propri progetti, coinvolti come sono in nuove storie sentimentali dove la passione erotica è abbondantemente consumata, ma che non hanno il potere di toccare e pacificare l’anima, di lenire le ferite di un non-amore che diviene posizione esistenziale.
Si intrecciano rapporti sociali, lavorativi, sentimentali, si è continuamente in rapporto con l’esterno: televisore, telefonini, foto, selfies accompagnano ininterrottamente i protagonisti del film, proprio come ci succede nella vita di tutti i giorni. Eppure non si è mai realmente davanti all’altro, nel suo dramma: il «consumato amore» si traduce in un egoismo sordo e cieco non solo all’altro, al suo dolore e alla sua bellezza, ma sordo e cieco perfino al bisogno della propria anima; un egoismo che scava dentro la persona un abisso di solitudine e finirà con il riprodurre gli stessi soffocanti rapporti di sopportazione e di possesso nella vita che successivamente i due protagonisti si ricostruiranno, come desideravano, a costo anche – come di fatto avviene – di sacrificare la vita del figlio.
La scena conclusiva vede Boris, il padre di Aleša, allontanare infastidito e in maniera piuttosto brutale il bambino nato dalla nuova relazione, mentre la moglie se ne sta in cucina a chiacchierare fitto fitto con la madre – tipica alleanza femminile in funzione antimaschile. E Ženja, la madre di Aleša, anche lei sola sebbene in casa ci sia il nuovo marito, seduto nell’altra stanza davanti al televisore, corre su un tapis roulant con una tuta su cui compare a caratteri cubitali la scritta «RUSSIA», affannandosi pur senza muovere un passo in avanti, mentre le balena davanti agli occhi l’immagine ormai sbiadita del figlio in uno dei tanti volantini affissi nei giorni in cui lo si stava cercando. Si tratta della metafora di una Russia devastata dalle cicatrici del passato sovietico (ad un certo punto nel film Boris definisce la madre «uno Stalin in gonnella», che non l’ha mai amata), lei stessa impossibilitata ad amare e inutilmente alla ricerca di se stessa e del proprio futuro?
Ma se il film vuol essere questa metafora, dentro tanta disumanità si coglie una novità rispetto alle pellicole precedenti del regista: la presenza dei volontari i quali, su segnalazione della stessa polizia che da subito dichiara la propria impotenza, si assumono il compito di cercare il ragazzino scomparso. Nelle loro figure sembra riemergere l’umanità azzeratasi nei genitori, nei loro amanti, nella nonna. Il nome di Aleša viene scandito a voce altissima tra i boschi da una voce di donna che non è quella di Ženja; è uno dei volontari a parlare da padre, al posto di Boris, a un amico di Aleša che si decide finalmente, anche se troppo tardi, a svelare il loro nascondiglio. Al terribile, devastante dialogo tra Ženja e la propria madre, una donna incattivita dalla vita che sullo sfondo della cucina tappezzata di icone copre di vituperi la figlia perché non ha abortito a suo tempo e le urla di non sognarsi di «sbolognarle» il nipote, assiste in disparte, addolorata e silenziosa come le pie donne sotto la croce, la giovane volontaria che l’ha accompagnata e ha battuto palmo a palmo il territorio dell’izba alla ricerca del ragazzino.
Le ricerche dei volontari hanno l’esito di condurre i genitori davanti a un corpo martoriato, ma neanche questo terribile impatto con la realtà, neanche il sacrificio di un innocente basta a farla prendere in considerazione: ancora una volta viene respinta, ridotta a pretesto perché si scatenino sentimenti di odio. Negare l’evidenza o dimenticarla, voltar pagina, ricominciare a tessere «consumati amori», questa è la disperata, istintiva e tragica reazione di Boris e Ženja. Proprio come quella del mondo, di ciascuno di noi, davanti alle circostanze della grande storia o della storia che ci tocca più da vicino.
A queste presenze fattive, solerti, numerose, coordinate nel muoversi insieme come un sol uomo, è affidato il presente. Come direbbe Pasolini: « Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto». Perché si danno da fare, che cosa li spinge, una motivazione politica, un senso civico, umanitario? Non ci sono spiegazioni, anzi nel regista si percepisce quasi un pudore ad addentrarsi in questo tema, quasi un timore di cadere nella retorica. Una cosa è certa: noi qui avvertiamo che forze nuove stanno nascendo anche nella Russia di oggi, torniamo a vedere un uomo fedele alla propria umanità, ne ritroviamo il volto, e sentiamo l’eco della Buona Novella che è il Natale – una Verità che si è fatta Presenza, un amore che si fa presenza, mendicanza, misericordia nei confronti del corpo martoriato dell’umanità.