26 Giugno 2017
Siria, ciò che resta è la carità
Nella guerra in Siria la Russia non è solo una presenza politica e militare, ci sono anche legami nati dalla comune radice cristiana. J.F. Thiry è andato da Mosca a Damasco per offrire l’esperienza di un lavoro culturale che aiuti a ricostruire l’uomo.
Nella ventina di progetti che i francescani di Aleppo stanno seguendo per riportare speranza e dignità in questa città siriana, divenuta simbolo della «terza guerra mondiale», c’è anche quello di usare la cultura per ricostruire ponti. Ne ha parlato padre Firas Lutfi (1975), superiore del collegio di Terra Santa e vice-parroco di San Francesco ad Aleppo, nell’intervista rilasciata a Jean-François Thiry.
Qual è la situazione attuale ad Aleppo?
A partire dal 22 dicembre scorso la città sta vivendo una rinascita. Durante gli ultimi cinque anni abbiamo sentito solo il sibilo e lo scoppio delle bombe. Uno scenario di pianto, sangue, innocenti uccisi barbaramente da entrambe le parti, sia nella parte controllata dal regime sia nella cosiddetta zona orientale. Il 22 dicembre con la mediazione russa è stato raggiunto un accordo tra l’esercito siriano e le varie fazioni di jihadisti. Alcuni hanno deposto le armi e sono rientrati nella società civile, altri hanno deciso di continuare a combattere. Dunque il 22 dicembre ha segnato un nuovo inizio per questa città martire, la più colpita, che ha portato su di sé il peso della guerra. Certo, qui la battaglia è finita, ma non la guerra che si continua a combattere nel resto della Siria, a Raqqa, Idlib, nel Nord… I segni visibili della guerra sono scomparsi, riusciamo a dormire più tranquillamente, dopo notti e notti di allerta e paura!
Ma è una città in ginocchio: non dimenticherò mai l’impatto che ho avuto attraversando la cittadella, sembrava la Berlino della Seconda guerra mondiale, una distruzione totale… Ora i media occidentali non parlano più di Aleppo, come se tutto fosse tornato alla normalità. È vero che la battaglia non c’è più, ma si continua a combattere in periferia e altrove, e alla fine il dramma della guerra ricade ancora qui. Continua la carenza d’acqua, sarebbe necessario ripristinare le infrastrutture, anche se i momenti duri in cui uno doveva stare per ore ad attingere un po’ d’acqua sono passati.
E dal punto di vista umano? Sta rinascendo una speranza? Qual è il lavoro principale da fare?
Il lavoro principale è ritrovare l’uomo. Tante ferite – come quelle sugli edifici – sono ben visibili, ma quelle che hanno segnato in profondità l’animo di ogni cittadino, sia di Aleppo Est che di Aleppo Ovest, sono sentite in modo particolare dai bambini e dagli anziani. Ci sono migliaia di anziani abbandonati dalle famiglie giovani che hanno dovuto scappare, e io personalmente lavoro nel recupero dei traumi post-bellici nei giovani. Mi sto occupando ad esempio di alcune ragazze sui 13-14 anni che hanno tentato il suicidio: c’è chi non riesce a dimenticare il momento in cui una bomba ha ucciso una compagna di scuola, chi ha perso i genitori e si trova nella preoccupazione costante di vivere da sola… Questi disturbi sono il frutto di una violenza enorme che hanno assorbito come una spugna, perciò l’animo di questi poveretti è tutto da ricostruire. Sicuramente c’è da ricostruire la struttura di una città antichissima, ma prima di tutto c’è da ricostruire l’essere umano che è stato ferito e danneggiato.
E la vostra parrocchia come interviene?
La parrocchia prosegue quel che aveva iniziato a fare all’inizio della guerra, ad esempio distribuisce pacchi alimentari – l’emergenza non è cessata, siamo ancora in una fase di passaggio. Oppure cerchiamo di assistere le coppie giovani, perché la presenza cristiana prima era di 150mila fedeli, ora siamo rimasti solo 30mila, quindi c’è stato un calo demografico enorme, ecco perché va sostenuto il dono della vita. Seguiamo circa 800 coppie, di tutti i riti, non solo della nostra parrocchia.
La guerra, per terribile che sia, ha facilitato un contesto di solidarietà, di partecipazione, di carità, aperta ai fratelli nella fede e a tutti. Sosteniamo anche la ristrutturazione delle abitazioni, in modo che le famiglie non se ne vadano: il nostro obiettivo è anzitutto quello di aiutare i cristiani a rimanere, a non cedere alla forte tentazione di andarsene. È chiaro che il governo non riesce a coprire le esigenze e le aspettative dei cittadini, per cui la Chiesa sta supplendo anche al ruolo delle istituzioni: ce la mettiamo tutta a sostenere questa scintilla di speranza.
Tutto ciò rientra nell’«ecumenismo del sangue»?
Sì, questa espressione l’ha usata papa Francesco quando si è incontrato con il patriarca di Costantinopoli, un bellissimo incontro che sintetizza cosa significa essere fratelli, e non solo della stessa famiglia. Il papa intende dire che quando uno jihadista sta per ucciderti non ti chiede se sei ortodosso, cattolico o protestante, ma se sei cristiano. Anche recentemente in Egitto: agli ostaggi gli jihadisti chiedevano di rinnegare la fede cristiana, non se fossero copti o protestanti… Ecco, molti innocenti sono martiri per Cristo.
Era una sensibilità già presente qui. Poi, durante la guerra, nel momento di assoluto bisogno, noi come comunità cattolica abbiamo avuto il vantaggio di avere fratelli sparsi in tutto il mondo, siamo parte della Chiesa universale, sentiamo la vicinanza dei nostri benefattori. I superiori del nostro Ordine francescano hanno lanciato l’appello già all’inizio della guerra, e l’aiuto che ci arriva lo condividiamo con i nostri fratelli, un po’ come è descritto negli Atti degli apostoli.
A Lei, come ai tanti che ancora se ne vanno, non è mai venuta la tentazione di dire «non ce la faccio»? Che cosa permette di ricominciare ogni giorno, di fronte a un lavoro così enorme?
Una volta un giornalista mi ha chiesto: Perché resti lì? Gli ho risposto: non «perché» ma «per Chi». E non è solo il mio caso, lo vedo anche nei miei confratelli. «Per Chi». Credo che abbiamo sperimentato la mano del Signore anche in mezzo al buio totale, a questo tunnel di cui non si vedeva l’uscita.
Una ragazza in confessione mi ha chiesto: ma perché Dio permette questo male, se è il Dio della bontà e della misericordia? E un’anziana: dove sono i nostri fratelli sparsi nel mondo? Perché non si muovono? Alla prima domanda mi è venuto in mente un crocifisso che abbiamo trovato in un quartiere di Aleppo completamente distrutto, era rimasto appeso senza braccia, qualcuno gli aveva anche sparato in faccia… Ecco, i segni di sofferenza ci sono, ma Lui è ancora lì, è lì «appeso», presente. È un Dio che sa condividere, che già duemila anni fa ha offerto fisicamente la vita per amore, e lo continua a fare. Qui ora siamo a Damasco, famosa per l’episodio collegato alla conversione di san Paolo. «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», chiede Gesù – e Saulo, poveretto: ma chi sei? E lui risponde: sono Gesù che tu perseguiti. Era già morto e risorto, e si riferiva al Suo corpo mistico sofferente. Dio è fortemente presente accanto a chi soffre e piange.
Dove sono i nostri fratelli? Siamo dei testimoni perché facciamo da ponte, nel corpo soffriamo con chi soffre, gioiamo e diamo speranza a chi l’ha persa. Però sappiamo che dall’altra parte del continente ci sono molti amici che pregano per noi, ci sostengono fortemente in questa unità di preghiera, siamo corpo di Cristo, membra gli uni degli altri. Certo, anche il sostegno economico è indispensabile per sostenere questa speranza. Non posso limitarmi a consolare un povero dicendo: beh, io non ho niente da darti, ma intanto preghiamo insieme… No: qualcosa ce l’abbiamo, ed è un dono di Dio e dei fratelli.
Cosa ritiene che l’Europa, o la Russia, possano fare?
Il primo dono che ogni siriano desidera è la pace. Se soffriamo è per la guerra. Qualcuno, con la violenza, ha cercato di dividere la società che era già diversificata, era un mosaico di etnie, confessioni e culture. Qualcuno ha gettato benzina sul fuoco della divisione, per questo il primo dono che desideriamo è la pace.
La Russia può e dovrebbe – non da sola – trovare modi per far sì che si ponga fine a questa guerra che non è semplicemente una guerra civile, perché non sono solo i siriani che combattono fra di loro, ma esistono tante fazioni con un altissimo numero di mercenari stranieri che combattono per interesse. La Russia, l’America, non dovrebbero guardare alla Siria solo considerando i propri interessi, ma aiutare il paese a ottenere la stabilità, e un segno concreto sarebbe la rimozione dell’embargo economico. La guerra in Siria è la più terribile del XXI secolo, molto complessa, anche perché legata all’Iraq, alla Libia, all’intero Medio Oriente.
Noi come francescani in Siria costruiamo la pace ogni giorno, con gesti apparentemente insignificanti. All’istituto di teologia per laici, di cui sono direttore, vengono ortodossi, cattolici… Sono responsabile di una realtà bellissima, perché varia, e lì sperimento come si può costruire la pace, mettendo assieme piccoli mattoni.
Lo so, dopo le nostre testimonianze in Occidente, ci chiedono: concretamente, cosa possiamo fare? L’invito primo e più efficace è l’unità spirituale, la preghiera, perché siamo veramente il Corpo mistico, come scrive san Paolo ai Corinzi: se un membro soffre, tutti gli altri soffrono con lui. In questo momento le membra di Cristo sofferenti patiscono in Siria tantissimo. D’altra parte è altrettanto importante la carità concreta, visibile. La carità nel Vangelo è stata sempre concreta: nessuno ha un amore più grande di chi dà la propria vita. L’amore allora non è solo sentimento ma la vicinanza concreta al prossimo, una piccola somma, qualche piccolo sacrificio: quanti amici hanno rinunciato ai doni del matrimonio per aiutare la Siria! Ultimamente un amico vescovo appena ordinato in Germania mi ha detto: le offerte della messa di ordinazione verranno inviate per sostenere il progetto di assistenza psicologica ai bambini.
Mi viene in mente madre Teresa, che era un’esperta nell’aiutare i poveri, e diceva che ogni gesto di bene che si fa è una goccia nell’oceano, e che l’oceano non sarebbe lo stesso senza questa goccia.
Tutto ciò aiuta a dare speranza, a dare le ragioni per rimanere e continuare la presenza dei cristiani. Un travaglio come questo genera una cristianità più purificata e motivata. Se il Signore ci ha voluti lì è perché c’è una missione, dobbiamo portare sempre l’amore di Cristo verso ogni persona, essere dei ponti di riconciliazione e dialogo. Penso a tutto il Medio Oriente con le sue religioni monoteiste, dove i cristiani fanno da ponte perché hanno una parola magica… poco conosciuta dalle altre: il perdono! Siamo portatori di pace, carità, servizio, e durante la guerra ci siamo resi conto che questa carità visibile e umile riesce a conquistare l’altro. Non facciamo proselitismo, ma la carità resta impressa nel cuore. Mi ha raccontato un musulmano russo, venuto in visita dalla madre ad Aleppo, che lei era così contenta quando gli ha mostrato una coperta donatale dai cristiani, e le scarpe distribuite dalla Caritas. Mi ha detto: Quello che fate rimarrà sempre impresso nella memoria. È quello che scriveva san Paolo: la carità è ciò che resta.
E come è possibile fare un’offerta, dare un aiuto concreto?
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Jean François Thiry
Direttore del Centro culturale “Pokrovskie Vorota”, Mosca.
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