
20 Luglio 2025
Alina
Il miracolo della pace è che anche sotto le bombe esiste la pietà.
Qualche giorno fa, un’amica russa, una fotografa che dall’inizio della guerra vive in Ucraina per documentare i crimini commessi dai suoi compatrioti nel corso della loro aggressione, ci aveva raccontato la storia di una giovane donna ucraina ammalata di cancro e bisognosa di cure, sperando che da noi si trovasse la cura risolutiva.
Ci aveva anche mandato la documentazione medica, chiedendoci di verificare se fosse possibile portarla in Italia. I medici che avevamo interpellato ci avevano detto che ormai la situazione era irreversibile e che non aveva senso tentare un qualsiasi trasferimento: Alina, così si chiamava la malata, sarebbe quasi sicuramente morta durante il trasporto.
Questa mattina l’amica fotografa ci ha mandato questo messaggio: «Alina è morta oggi, in pace, in un luogo pulito e silenzioso. Se n’è andata senza soffrire, nello stupendo hospice dell’ospedale municipale n. 17 di Charkiv… Eravamo riusciti a portarla in questo posto benedetto da Dio [a Charkiv, sotto le bombe!] solo ieri mattina. Sino alla fine, accanto ad Alina è rimasto il suo amico Dima che ieri mi aveva sussurrato in un orecchio: “Vorrei morire con lei…”. Grazie a tutti quelli che ci hanno aiutato. I nostri sforzi comuni le hanno permesso di andarsene con dignità. Prima o poi racconterò la sua storia, ma adesso non ne ho la forza. Pace e amore a tutti!».
In attesa di questo racconto non potevamo tacerne del tutto: storia di una tragedia irreparabile, che si è consumata durante una guerra altrettanto irreparabile e senza fine, che getta tutti in una disperazione ogni giorno più spaventevole. La stessa amica che ce la raccontava – ripeto, russa – aveva espressioni durissime nei confronti del male commesso dalla sua gente: indegna, incapace di ritrovare la dignità di un’opposizione sia pur minima.
E noi che la sentivamo avvertivamo lo stesso senso di indegnità pensando alle preoccupazioni di tanta parte della nostra gente, assillata più dall’ansia di stare in pace che non dal desiderio della pace. E, travolti dalle impressioni, non ci rendevamo conto che lei, rischiando la vita da più di tre anni per documentare il male dei suoi era già la loro speranza, piccola e minoritaria, ma reale.
E neppure ci rendevamo conto che quell’hospice, mantenuto aperto e pulito sotto le bombe che colpiscono proprio i luoghi più indifesi, era il segno di qualcosa di più di una speranza, era il segno di una società che resiste e rende possibile una dignità nonostante tutto e col rischio di essere spazzata via a ogni istante, eppure ben reale.
E noi? Sentiamo, almeno, il dolore dell’amica fotografa che dice di non avere la forza, e invece ce l’ha? Sussurrando, ci sfida a non tacere, almeno noi, o meglio, ad accompagnare questi amici, non girando la faccia dall’altra parte, ma stando ai piedi della loro croce e capendo che questo stare, nel dolore della sua impotenza, nel dolore della sua sofferenza, è già un partecipare a quella rinascita che non siamo capaci di darci da soli eppure, anch’essa, è così reale, in Alina e Dima, nella loro amica fotografa e in chi tiene in piedi quell’hospice benedetto da Dio.
(Foto d’apertura: L’ospedale nr. 17 di Charkiv – wikimapia)
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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