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3 Febbraio 2016
Diari ucraini. Un reportage dal cuore della protesta
Andrei Kurkov
Diari ucraini. Un reportage dal cuore della protesta
Keller Editore, 2014
€ 16,00
Dal 21 novembre 2013 al 24 aprile 2014, con un’aggiunta relativa al 27 giugno, quando il presidente Petro Porošenko firmò l’accordo di associazione e libero scambio tra l’Ucraina e l’Unione Europea: questo è l’arco temporale in cui si situano i fatti narrati nei Diari ucraini di Andrei Kurkov, uno dei più interessanti scrittori ucraini contemporanei. Sono fatti di cui tutti, più o meno, abbiamo sentito parlare: le proteste e il movimento nato attorno alla Piazza dell’Indipendenza a Kiev, il Majdan Nezaležnosti, e poi tutto quello che è venuto insieme; come ricorda l’autore, la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina e l’annessione della Crimea da parte della Federazione russa, la nascita della «guerra ibrida» nella parte orientale dell’Ucraina stessa e la restaurazione di un clima in tutto e per tutto da guerra fredda tra Russia e Occidente.
Kurkov ci guida attraverso questi avvenimenti con la precisione e il calore del testimone oculare, e con il dolore, anche, di chi si è convinto che, quali che saranno le conclusioni della tragedia che si sta svolgendo a poche centinaia di chilometri da casa nostra, per lui e per i suoi cari «non ci sarà più la cara e vecchia Ucraina in cui abbiamo vissuto per ventitré anni dal giorno della sua indipendenza». Forse è una conclusione troppo sconsolata e pessimista, e sicuramente è eccessivo, come fa l’autore alla fine del suo libro, dire che «l’Europa, che durante il Majdan ha sbandierato il suo sostegno, ora si è fatta da parte e si è ammutolita, dando la precedenza ai suoi rapporti commerciali con la Russia»: questa tentazione c’è stata e c’è, e in qualche caso c’è stato e c’è anche un credito al putinismo che è persino qualcosa di peggio, ma non c’è stato solo questo, c’è stato anche molto altro, nella forma di un disagio, sia pur non sempre chiarissimo, di fronte al disprezzo per i patti che dovrebbero regolare i rapporti tra gli Stati, e nella forma di una solidarietà umana che ha caratterizzato le iniziative spontanee di aiuto alle popolazioni coinvolte nella guerra, iniziative non certo numerosissime, ma che pure ci sono state (anche se, purtroppo, nessuno ne parla).
La lettura di questo libro, a dispetto del pessimismo che attraversa le sua pagine finali, può aiutare proprio a far venire alla luce questi tratti positivi, che hanno caratterizzato il cuore del Majdan e che, dal Majdan, potrebbero aiutarci a riscoprire il senso e il contenuto di un lavoro comune per la ricostruzione di uno spazio di pace: un lavoro comune a tutta l’Europa, Russia compresa, e uno spazio di pace per tutta l’Europa, Russia compresa.
Il racconto dei fatti ci fa in effetti scoprire innanzitutto che la rivolta non è nata e non è cresciuta contro la Russia, ma per il desiderio «di scrollarsi di dosso l’amoralità e la corruzione», per il desiderio che l’Ucraina «sia uno Stato di diritto».
L’autore, che non nasconde la presenza di provocazioni di destra (per altro assolutamente minoritarie, come poi si sarebbe visto nelle varie elezioni successive) e che non ha esitazioni nel condannare queste cadute, ci permette però di vedere soprattutto questo nucleo caratterizzante del movimento del Majdan: il desiderio delle giovani generazioni che la vita del loro paese fosse regolata da poche leggi, chiare e uguali per tutti, in modo che tutti fossero tenuti a rispettare queste leggi, anche il poliziotto di quartiere, così che questo non si sentisse «“libero” di prelevare i gelati al chiosco locale, gratis» e così che poi i figli del gelataio non dovessero crescere «coltivando un vero odio per i figli del poliziotto di quartiere»; perché, in caso contrario, «buonanotte a tutti i gelatai e i poliziotti di quartiere o anche ai semplici abitanti di questo mondo».
Il rispetto delle norme di convivenza non per un astratto formalismo o per una vana conservazione dello status quo, ma per impedire l’insorgere dell’odio: l’altro dei tratti notevoli che attraversano la narrazione degli eventi è in effetti proprio il superamento dell’odio; Kurkov si definisce «della Russia», ma «non della Federazione Russa» e, se non concede alcuna attenuante alla politica dell’attuale governo russo, non perde però occasione per ribadire che «il termine “russo” non suscita nessun tipo di rabbia in un ucraino».
Sono queste due suggestioni che dalle pagine dei Diari di Kurkov possono venire all’Europa perché riscopra un pezzo della sua anima; innanzitutto c’è bisogno di riscoprire un rapporto tra società e Stato in cui questo rispetti le norme e quindi i diritti delle persone, un rapporto tra società e Stato nel quale, per usare delle espressioni di T. Judt, la prima «permetta un certo livello di intervento dello Stato, limitato dalla legge e dalla consuetudine» e il secondo «conceda alla società ampi margini di autonomia, vincolata al rispetto delle istituzioni dello Stato stesso».
È appunto in questo spazio, caratterizzato dalla autonomia della società e dalla libertà delle persone non più schiacciate dai miti o dalle pretese degli Stati o degli imperi, che si apre quella vita fatta di solidarietà e di reciproca stima che la crisi Ucraina dovrebbe aiutarci a riscoprire e a ricostruire, fuori dall’odio, verso una riconciliazione che è l’unica possibilità che ci resta.
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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